AADI: un altro caso di responsabilità penale e principio di affidamento

Redazione 05/04/17
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Riceviamo e diffondiamo l’ultimo commento AADI: Commento a Cassazione sez. IV Penale, 20 febbraio 2017, n. 8080 redatto dal Dott. Carlo Pisaniello. 

Nulla di nuovo sull’interpretazione della responsabilità penale in ambito sanitario… La giurisprudenza in più occasione si è espressa sul c.d. “principio di affidamento”.

Nulla di nuovo quindi sul fronte della responsabilità penale dei singoli professionisti, la sentenza in oggetto conferma l’orientamento della giurisprudenza in campo penale, ossia che in capo ad ogni professionista sussiste una responsabilità personale che esula dalla condotta dell’intera équipe. In ambito penale vigono due principi sostanziali in fatto di responsabilità professionale che possiamo riassumere in:

Il principio di affidamento: secondo il quale, nelle situazioni in cui ci sia una pluralità di soggetti a tutela del medesimo bene giuridico, ossia la vita del paziente, sulla base di precisi doveri suddivisi tra i vari operatori, come accade in una équipe di sala operatoria, è opportuno che ogni compartecipe abbia la possibilità di concentrarsi sui compiti affidatigli, confidando sulla professionalità degli altri, della cui condotta colposa non può almeno in linea generale essere chiamato a rispondere. E’ un principio che opera come limite all’obbligo di diligenza gravante su ogni titolare della posizione di garanzia. Tale principio però non opera in maniera assoluta, perché si vuole evitare che la mera applicazione dell’affidamento comporti che ogni operatore dell’équipe possa disinteressarsi del tutto dell’operato altrui, con i conseguenti rischi legati a difetti di coordinamento tra i vari operatori.

Il principio dell’affidamento “temperato o relativo”, in base al quale ciascuno degli operatori può essere chiamato a rispondere anche dell’operato degli altri professionisti presenti per omesso o inesatto controllo a meno che questo non abbia ad oggetto competenze talmente specialistiche, tali da non poter essere valutate dagli altri operatori. Soprattutto in capo al c.d. capo équipe o primario, infatti il principio dell’affidamento, anche quando temperato, può subire una restrizione nei casi in cui vi sia un sanitario preposto alla direzione dell’intervento o del trattamento medico d’équipe (è il caso della cosiddetta responsabilità del “capo-équipe). Non è questo il caso, ma sicuramente la corte territoriale nelle more delle sue ulteriori valutazioni potrebbe rideterminare la colpa dell’anestesista come culpa in vigilando.

Fatte queste doverose premesse, sarà più facile ora comprendere la scelta fatta della Suprema Corte in merito alle singole responsabilità.
Ma veniamo al caso; con la sentenza n. 3336/15 del 12/11/2015, la Corte di Appello di Catania confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Catania in data 23/04/2014 nei confronti di T.C. infermiere e B.S. medico anestesista ed appellata dagli stessi nonché dal responsabile civile Azienda Ospedaliera.
I soggetti di cui trattasi sono appunto un infermiere, T. C., e un anestesista, B.S., colpevoli secondo la corte di appello di Catania del reato di lesioni personali colpose e condannati alla pena di mesi 6 di reclusione ciascuno (pena sospesa condizionata al pagamento della provvisionale in favore delle parti civili costituite); gli imputati e il responsabile civile venivano poi condannati al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite e al pagamento di una provvisionale.

In particolare si contestava agli imputati, l’anestesista B. e l’infermiere T. , che ebbero in carico il paziente M.G., nella c.d. fase di risveglio post operatorio, di non aver adeguatamente vigilato il paziente al termine dell’operazione chirurgica cui lo stesso era stato sottoposto, così non avvedendosi che lo stesso paziente subiva un arresto respiratorio che comportava un successivo arresto cardio circolatorio con conseguenti lesioni gravissime derivate alla prolungata ipossia cerebrale con successivo stato di coma.
Avverso tale sentenza di appello propongono ricorso per cassazione sia l’anestesista che l’infermiere nonché il responsabile civile Azienda Ospedaliera.
Secondo i ricorrenti successivamente all’intervento chirurgico, il paziente che si trovava nella fase di risveglio sempre all’interno della sala operatoria – poiché la struttura non era dotata di una specifica e separata sala risveglio – veniva prontamente assistito sia dall’anestesista che dall’infermiere, i quali, non soltanto praticavano le manovre previste in questi casi nell’attesa che il degente si svegliasse, ma venivano anche praticate quelle tecniche prescritte dalla buona pratica per assicurarsi che il paziente non fosse solo sveglio ma che avesse anche recuperato le funzioni vitali in modo completo, e cioè che si orientasse spazio-temporalmente, tant’è che il paziente M. rispondeva alle domande correttamente ed addirittura, chiedeva ed otteneva, stringendolo in mano, il contenitore con le ferule appena rimosse dal chirurgo; solo a quel punto, e comunque dopo che era trascorso il tempo previsto dalle linee guida per il risveglio post-operatorio, una volta accertato il recupero stabile delle funzioni vitali, il paziente M.G. veniva dimesso dall’area risveglio della sala operatoria e condotto in una sala attigua, dove i pazienti attendevano l’arrivo dei portantini per essere ricondotti in reparto.

I ricorrenti per il tramite dei loro avvocati sostengono che da quel momento cessava la funzione di garanzia in capo ai due tant’è che all’infermiere veniva chiesto di “preparare” la paziente che avrebbe dovuto sottoporsi al successivo intervento nella seduta chirurgica di quel giorno.

Secondo la tesi difensiva dei legali dell’infermiere, la Corte territoriale ha totalmente ignorato che ci si trova in presenza di condotta che obbliga ad una valutazione del contesto organizzativo e cioè della organizzazione complessa che presiede ai compiti assegnati ai sanitari ospedalieri. Deve inoltre evidenziarsi come l’infermiere, dopo avere osservato i suoi obblighi, abbia cooperato con il medico anestesista fino al risveglio del paziente, e di più, sino al recupero dei parametri vitali nonché alla stabilizzazione degli stessi, e successivamente, sollevato dai suoi doveri di garanzia per il raggiungimento dello scopo, adempiva a un ordine legittimo impartitogli dal chirurgo capo team e quindi si predisponeva a preparare la successiva paziente che avrebbe dovuto sottoporsi al secondo intervento di quel giorno; alla luce di quanto suesposto, la Corte territoriale avrebbe dovuto rilevare l’inesistenza quindi di alcun nesso di causalità tra la condotta dell’infermiere e l’evento occorso alla parte offesa.

La difesa deduce inoltre, che la personalità dell’imputato, la condizione di incensuratezza dello stesso, e soprattutto l’avere questi assolto ai doveri collegati alla sua funzione di garanzia, avrebbero dovuto essere sufficienti a mitigare la pena inflittagli, mediante l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis c.p…

La difesa dell’anestesia dal canto suo, deduce che già il Giudice di prime cure aveva evidenziato come la regola che si contesta ad entrambi gli imputati, sia “quella della vigilanza e della sorveglianza nei riguardi del M. durante la fase post-operatoria”; per valutare correttamente la suddetta regola però è necessario farlo attraverso il riferimento alle “linee guida accreditate in campo medico e scientifico per la sicurezza dei pazienti sottoposti ad interventi chirurgici” in particolar modo alle delimitazione delle posizioni di garanzia degli imputati; i Giudici di primo grado, erroneamente, non fanno alcuna diversificazione tra l’anestesista e l’infermiere, entrambi tenuti in maniera indifferenziata – secondo la Corte – alla sorveglianza del paziente fino alla completa ripresa dello stesso, ma questa ricostruzione secondo i difensori dell’anestesista, non trova alcun fondamento nelle indicazioni ivi contenute delle linee guida, traducendosi in un gravissimo error in iudicando che vizia alla radice l’impostazione della decisione d’appello: invero, le linee guida ed i protocolli presenti nella struttura ospedaliera, segnano una netta distinzione tra la “fase iniziale di risveglio” e la “fase successiva”, a cui corrisponde una articolazione bifasica della responsabilità dell’anestesista ed altresì, una specifica posizione di garanzia dell’infermiere che nasce, come si vedrà, in concomitanza con l’esaurimento della prima fase di risveglio ed il passaggio alla seconda fase. Contrariamente a quanto ritenuto dai Giudici d’appello le linee guida ed i protocolli acquisiti agli atti concludono inequivocabilmente nel senso di una netta separazione tra la fase iniziale di risveglio e quella successiva e di un’altrettanto netta articolazione degli obblighi gravanti, rispettivamente, su anestesista e infermiere.

Infatti, l’anestesista è direttamente responsabile della prima di tali fasi, laddove nella seconda fase la responsabilità passa in capo al personale infermieristico, sotto la mera supervisione del medico anestesista; in particolare, le linee guida sono contenute nei due documenti (entrambi acquisiti nel corso dell’istruttoria dibattimentale e citati tanto nella sentenza di prime cure quanto nella pronuncia d’appello):
1) le raccomandazioni S.I.A.A.R.T.I. per l’area di recupero e l’assistenza post-anestesiologica;
2) il protocollo di sorveglianza post-anestesiologica in vigore al presidio ospedaliero all’epoca dei
fatti.

Secondo le raccomandazioni S.I.A.A.R.T.I. “il termine risveglio è in realtà improprio, in quanto riferito unicamente alla fase di ripresa della coscienza dopo un’anestesia generale”, mentre più adeguato appare il termine “recupero” che “comprende il ripristino della stabilità dei parametri vitali, dello stato di coscienza, ma anche dell’attività motoria, della sensibilità, ecc.” e “la responsabilità della sorveglianza clinica dei pazienti è affidata agli infermieri”; si precisa altresì che laddove non sia prevista la figura di un anestesista specificamente deputato alla zona risveglio, “l’infermiere farà riferimento all’anestesista di sala”.

Secondo invece le linee guida in vigore presso l’ospedale; “Protocollo per la Sorveglianza Post- Anestesiologica”, introdotto in data 6 maggio 2010, “la sorveglianza temporanea del paziente a seguito di intervento chirurgico in anestesia può essere effettuata, ad opera del personale medico ed infermieristico, all’interno della stessa sala operatoria o in un ambiente idoneo appositamente attrezzato” e “il medico anestesista è responsabile della fase iniziale di risveglio dall’anestesia”, alla quale “assisterà… in S.O. (sala operatoria) oppure nella sala di risveglio”, mentre “la sorveglianza e l’assistenza” post-operatoria del paziente, invece, “devono essere assicurate da infermieri professionali qualificati”; in tale fase quindi, non è prevista la presenza diretta e costante dell’anestesista, a differenza di quanto richiesto, invece, per la fase iniziale di risveglio dall’anestesia, che l’anestesista cura personalmente.

Risulta quindi innegabile come una lettura parziale e distorta delle linee guida abbia condotto i Giudici di primo grado ed errare nella individuazione in concreto della regola cautelare cui avrebbero dovuto conformarsi gli odierni imputati, e nella perimetrazione della posizione di garanzia gravante sul dott. B. anestesista.

Inoltre, sempre secondo la tesi difensiva dell’anestesista, in relazione alla ritenuta sussistenza di una responsabilità colposa, deduce che la condotta dell’imputato, risulta perfettamente aderente alla regola cautelare secondo cui il medico anestesista è tenuto a curare personalmente la fase iniziale di risveglio dall’anestesia, laddove successivamente il soggetto onerato dall’obbligo di sorveglianza sul paziente è l’infermiere (il quale deve fare comunque riferimento all’anestesista). Risulta infatti dallo stesso provvedimento impugnato, che il dott. B. ha curato personalmente la fase iniziale del risveglio del paziente dall’anestesia – come richiesto dalle linee guida in materia – estubandolo, monitorandone le condizioni e interagendo con lui; emerge altresì che a ciò provvedeva all’interno della stessa sala operatoria coerentemente con quanto stabilito dal Protocollo in vigore presso l’Ospedale, secondo cui la gestione post-operatoria del paziente può avvenire nella “stessa sala operatoria”.

Esaurita poi la fase iniziale di risveglio dall’anestesia, e considerando che era stata avviata in sala operatoria la successiva fase di recupero, in quanto “secondo quanto unanimemente riferito dai testi, il paziente appariva sveglio e rispondeva alle domande”, veniva portato fuori dalla sala operatoria e veniva affidato alla sorveglianza dell’infermiere T., il quale era “incaricato di vigilare sulle condizioni di salute del paziente”.
Successivamente il dott. B. si allontanava per provvedere allo scarico dei farmaci utilizzati per la sedazione nell’intervento.

La circostanza per cui il dott. B. accorse subito dopo che fu lanciato l’allarme, dimostra come lo stesso fosse rimasto nel blocco operatorio e, più precisamente, vicino alla stanza attigua alla sala operatoria (ove il paziente avrebbe dovuto trovarsi con l’infermiere T. ), adeguandosi così – anche sotto tale frangente – alle previsioni delle linee guida le quali, stabilendo che gli infermieri – su cui grava l’obbligo di sorveglianza post-operatoria del paziente – facciano riferimento all’anestesista (che è supervisore) richiedono che questi sia prontamente reperibile.
La condotta quindi dell’anestesista appare perciò rispettosa delle linee guida che definiscono la regola cautelare rilevante nel caso di specie, posto anche che, dalle indicazioni delle linee guida richiamate in sentenza, non risulta in alcun modo l’esistenza di un dovere, in capo all’anestesista, di monitorare personalmente il paziente fino al trasferimento in reparto.

Deduce ancora la difesa dell’anestesista, che, nella sentenza, il Giudice dell’appello afferma come “sull’anestesista gravasse un obbligo di vigilanza sul paziente e di verifica della integrale ripresa e stabilizzazione di tutti i parametri vitali dello stesso nonché di direzione del personale infermieristico incaricato della attività di controllo sotto la supervisione dell’anestesista, attività che non sono state compiute dall’imputato anestesista B. , in violazione delle linee guida in materia, con la conseguenza che non può trovare applicazione nel caso in esame l’art. 3 comma 1 L. 189 del 2012 (il c.d. decreto Balduzzi) che presuppone da parte dell’esercente la professione sanitaria il rispetto delle linee guida”, ma come sopra detto, il dott. B. ha rispettato pienamente quanto imposto dalle linee guida rilevanti per il caso di specie. Sostiene inoltre che, secondo la pronuncia della Corte di Cassazione, sez. IV, n. 16237 del 29 gennaio 2013, può parlarsi di “colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato definito dalle standardizzate regole d’azione”, inoltre “in tema di responsabilità per attività medico chirurgica, al fine di distinguere la colpa lieve dalla colpa grave, possono essere utilizzati i seguenti parametri valutativi della condotta tenuta dall’agente: a) la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi, b) la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente; c) la motivazione della condotta; d) la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa” (sez. 4, n. 22405 dell’8.5.2015, Piccardo, Rv. 263736 e sez. 4, 21 ottobre 2015, n. 45437). Afferma inoltre che, a chiarimento, non risulta che il sig. M. fosse affetto da patologie tali da richiedere l’adozione di particolari cautele in sede di risveglio dall’anestesia generale, essendo stato accertato “dagli esami pre-operatori” che egli fosse “in ottima salute” (v. dichiarazioni dott. R., verbale udienza 15 maggio 2013, p. 14 e atto d’appello, p. 39);

Ancora la difesa del dott. B., sostiene che la Corte d’Appello avrebbe quantomeno dovuto chiarire, a fronte di uno specifico rilievo difensivo, la ragione per cui la pena inflitta al dott. B., che aveva comunque affidato il paziente all’infermiere, debba coincidere con quella applicata allo stesso infermiere, il quale – invece – lasciò da solo il paziente su cui era “incaricato di vigilare” allontanandosi “arbitrariamente”.

La suprema Corte, valutati gli elementi posti a suffragio delle tesi dei ricorrenti deduce quanto segue;
“Va ribadito che al giudice di legittimità è assegnato solo il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative – la c.d. giustificazione esterna – della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare (cfr. e pluribus sez. 4, n. 43459 del 04/10/2012)”.

Per quello che riguarda il ricorso proposto dall’infermiere; le linee guida indicate dal Gruppo di Studio SIAARTI per la Sicurezza in Anestesia e Terapia Intensiva (raccomandazioni per l’area di recupero e l’assistenza post-anestesiologica), delle quali hanno fatto largo uso i Giudici del merito nelle rispettive motivazioni, comprendono diverse definizioni.
Al paragrafo 3 (Definizioni e Obiettivi) vi afferma, tra l’altro, che “Il termine risveglio è in realtà improprio in quanto riferito unicamente alla fase di ripresa della coscienza dopo un’anestesia generale. Nei paesi di lingua inglese il termine utilizzato per identificare quest’area è Recovery Room, traducibile in area di recupero dall’anestesia. Il termine recupero comprende il ripristino della stabilità dei parametri vitali, dello stato di coscienza, ma anche della attività motoria, della sensibilità, ecc. e può quindi essere convenientemente esteso anche al controllo postoperatorio degli interventi condotti con tecniche loco-regionali”;
Al paragrafo 6 (Risorse Umane) chiarisce che “La responsabilità della sorveglianza clinica dei pazienti è affidata agli infermieri”.

Al paragrafo 7 (Fasi Cliniche); viene riportato che “La sorveglianza postoperatoria comprende la periodica valutazione dello stato di coscienza, delle funzioni respiratoria, cardiocircolatoria e neuro-muscolare, della temperatura, del dolore, della diuresi, dei drenaggi chirurgici oltre al trattamento di eventuali complicanze.., lo stato di coscienza e i riflessi protettivi devono essere valutati clinicamente con periodicità non superiore ai 15 minuti. Qualora insorga uno stato confusionale acuto il paziente deve essere attentamente valutato per escludere i potenziali fattori reversibili riconducibili ad una sofferenza cerebrale di tipo ipossico, metabolico o farmacologico. “Durante la fase di risveglio devono essere attentamente valutati la pervietà delle vie aeree, il pattern respiratorio (frequenza respiratoria ed escursione toracica) e la SpO2 con pulsiossimetro”.

Correttamente quindi, la Corte del merito ha ritenuto sussistente il nesso causale (e la colpa grave) tra la condotta del ricorrente infermiere e le lesioni patite dalla persona offesa valorizzando che “Nel caso in esame non vi è dubbio che l’infermiere T. , al quale era stata affidata la sorveglianza del paziente M. ben prima che lo stesso completasse la fase di recupero, si sia arbitrariamente allontanato dalla saletta attigua alla sala operatoria ove il paziente era stato condotto, privandolo di qualunque assistenza e controllo, atteso peraltro che il paziente non veniva in tale fase monitorato neanche mediante l’utilizzo di appositi macchinari. Tale allontanamento non trova alcuna giustificazione non avendo l’infermiere ricevuto direttive in tal senso, anzi gravando su di lui l’obbligo di attento monitoraggio del paziente, e senza che tale allontanamento fosse dovuto a situazioni emergenziali”. Le riportate affermazioni appaiono, in vero, ben sorrette dalle linee guida sopra descritte e secondo cui “La responsabilità della sorveglianza clinica dei pazienti è affidata agli infermieri… La sorveglianza postoperatoria comprende la periodica valutazione dello stato di coscienza, delle funzioni respiratoria, cardiocircolatoria e neuromuscolare, della temperatura, del dolore, della diuresi, dei drenaggi chirurgici oltre al trattamento di eventuali complicanze… lo stato di coscienza e i riflessi protettivi devono essere valutati clinicamente con periodicità non superiore ai 15 minuti … Il termine recupero comprende il ripristino della stabilità dei parametri vitali, dello stato di coscienza, ma anche della attività motoria, della sensibilità, ecc.”.

E’ evidente quindi che il ricorrente infermiere T. abbia violato le norme cautelari di condotta mentre era pienamente esigibile da lui un comportamento alternativo – a quello tenuto – e corretto (quello imposto dalle linee guida e dal protocollo vigente nel nosocomio). Infatti la corte territoriale ha evidenziato che, “se davvero il T. fosse rimasto sull’uscio della saletta egli si sarebbe certamente avveduto della perdita di conoscenza del paziente… certamente negligente appare la condotta posta in essere dall’infermiere professionale T. il quale, pur incaricato di vigilare sulle condizioni di salute del paziente, in una fase ancora critica in cui il M. era stato collocato in sala transito senza ancora essere stato affidato ai barellieri per il trasferimento in reparto, lasciò il paziente solo e privo di osservazione e controllo”, ritenendo, incensurabilmente, che se il ricorrente avesse tenuto la condotta esigibile e doverosa l’evento non si sarebbe verificato. Quanto al grado della colpa, il Giudice del merito ritiene che la “condotta tenuta dall’infermiere appare pertanto in contrasto con i protocolli e le linee guide operanti nel settore e comunque connotata certamente da colpa grave, con la conseguenza che non può trovare applicazione il c.d. decreto Balduzzi”.

Per quello che riguarda invece il ricorso proposto dall’anestesista dott. B., va premesso che la L. n. 189/2012, c.d. “legge Balduzzi”, nel convertire il D.L. 158 del 2012, ha stabilito nell’art. 3 che “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”. Tale disposizione ha introdotto nel nostro ordinamento una rilevante novità in quanto è stato attribuito al grado della colpa non più solo il ruolo di parametro per la determinazione della pena (art. 133 c.p.), ma anche una diretta incidenza sulla tipicità del fatto.

La più recente giurisprudenza di questa Corte, estende la rilevanza della colpa lieve anche ad addebiti diversi dall’imperizia. È stato, infatti, affermato che, premesso che in tema di responsabilità medica l’osservanza delle linee guida accreditate dalla comunità scientifica esclude la rilevanza della colpa lieve, la novella pur trovando terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia, può tuttavia venire in rilievo anche quando il parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza (cfr. sez. 4, n. 47289 del 09/10/2014 Ud. (dep. 17/11/2014), Rv. 260739; sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013 Ud. (dep. 09/04/2013), Rv. 255105). Si è osservato in tali pronunce come, alla stregua della nuova legge, le linee guida accreditate operano come direttiva scientifica per l’esercente le professioni sanitarie; e la loro osservanza costituisce uno scudo protettivo contro istanze punitive che non trovino la loro giustificazione nella necessità di sanzionare penalmente errori gravi commessi nel processo di adeguamento del sapere codificato alle peculiarità contingenti. Inoltre, sebbene, come già detto, la nuova disciplina trovi il suo terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia, non può tuttavia escludersi che le linee guida pongano regole rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza; come nel caso in cui siano richieste prestazioni che riguardino più la sfera della accuratezza di compiti magari particolarmente qualificanti, che quella della adeguatezza professionale (cfr. sez. 4, n. 45527 del 01/07/2015).

La Corte territoriale, pur avendo fatto ampio riferimento alle linee guida ed ai protocolli operativi ha poi ritenuto che “In conclusione, una attenta vigilanza e un intervento di rianimazione tempestivo da parte degli imputati, effettuato nell’immediatezza dell’insorgenza dell’arresto respiratorio, e non dopo un periodo di tempo di almeno dieci minuti come nel caso in esame, avrebbe evitato con elevato grado di probabilità le lesioni gravissime e il conseguente stato di coma irreversibile in cui il M. è caduto” da ciò derivando altresì “l’estrema gravità della condotta tenuta dagli imputati, i quali hanno disatteso l’obbligo di vigilanza su di essi gravante, e le irreversibili conseguenze derivanti a seguito della loro condotta sulla salute del paziente”, sovrapponendo, così, due differenti posizioni di garanzia e non esplicitando, soprattutto in capo al dott. B, quale avrebbe dovuto essere – alla stregua, appunto, delle linee guida ed dei protocolli operativi citati – il diligente comportamento alternativo “corretto”, quale sia stata la “deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato definito dalle standardizzate regole d’azione”, e in che misura si è realizzata la divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi e quanto fosse rimproverabile la condotta tenuta in concreto sulla base delle specifiche condizioni dell’agente, quale fosse la motivazione della condotta, nonché se fosse sussistente la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa o negligente ovvero imperita.

Il vizio motivazionale in cui è incorsa la Corte di merito ha determinato, di conseguenza, un difetto di motivazione sulla valutazione del grado della colpa, affidata ad aggettivazioni di gravità, che però non si confrontano con le specifiche argomentazioni difensive e, soprattutto non affrontano esplicitamente la possibilità della applicazione, nel caso in esame, della depenalizzazione introdotta dalla legge “Balduzzi”. Il Giudice dell’appello, invero, non ha tenuto nella dovuta considerazione la distinzione esistente tra “fase di risveglio” e “fase di recupero”, la prima affidata in via prioritaria al medico che deve intervenire con le manovre tecniche necessarie a ripristinare le normali funzioni vitali (nella specie correttamente assolta), la seconda affidata prioritariamente al personale infermieristico, per la quale è richiesta la assidua sorveglianza del paziente per controllare l’evoluzione della situazione e sollecitare l’intervento del medico ove necessario.

Nonostante la difesa del dott. B. avesse già prospettato con puntualità come tale fosse il contenuto delle linee guida, la sentenza non si è fatta carico di alcun approfondimento ma si è limitata ad affermazioni generiche circa l’obbligo di sorveglianza da parte del medico, ritenendo tale obbligo anche nella “fase di recupero” del tutto identico e sovrapponibile a quello dell’infermiere, come se fosse necessaria la presenza costante di entrambi gli operatori, laddove appare invece ragionevole ritenere che la sorveglianza, certamente da effettuarsi in modo diretto e costante per tutto il tempo in cui il paziente è trattenuto negli spazi del recupero, possa però essere assicurata da uno solo dei due soggetti ed anzi prioritariamente dall’infermiere.

Per tali motivi la Corte adita annulla la sentenza impugnata relativamente alle doglianze del dott. B. con rinvio alla Corte di Appello, rigetta il ricorso dell’infermiere T. e condanna alle spese di giudizio sia l’infermiere che l’azienda ospedaliera.

A ragion veduta, quindi, qui il c.d. “principio di affidamento” ha trovato la sua massima conferma con la condanna per l’infermiere, reo di aver abbandonato alle sorti nefaste il paziente che a seguito dell’abbandono ha avuto un arresto cardiocircolatorio e scagionando l’anestesista che confidava invece nelle capacità dell’infermiere per la gestione e la sorveglianza qualificata del paziente in sua assenza.
Ed ecco perché all’interno o adiacente alle sale operatorie, dovrebbe trovarsi una adeguata Recovery room gestita da personale infermieristico qualificato, che sia in grado di gestire in toto il paziente appena dopo il risveglio e in équipe con l’anestesista gestire tutta la fase post operatoria prima di essere riaccompagnato nel reparto di degenza. Ad oggi in molte strutture, ove questa non è presente il paziente viene inviato in TIPO o in Rianimazione proprio per avere una sorveglianza più specifica ed attenta.

Dott. Carlo Pisaniello

Redazione

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