L’onere della prova nelle obbligazioni nei casi di colpa medica

Scarica PDF Stampa
Per ciò che attiene alla colpa medica, un principio sul quale spesso si fa confusione e che è molto dibattuto in dottrina e giurisprudenza riguarda l’onere della prova nelle obbligazioni derivanti dal rapporto con il medico. Siamo nell’ambito della colpa medica, tematica questa che ha subito grandi modifiche a seguito della riforma Gelli, ma che continua a mantenere nella sua intima ratio ragioni di complessità non indifferenti.

Nell’ambito delle obbligazioni ci troviamo di fronte a due soggetti: debitore e creditore, ed il problema che ci si è posti in alcuni casi giurisprudenziali riguardava la valutazione circa la prestazione che doveva essere eseguita dal debitore, in particolare quando la stessa non fosse eseguita correttamente o non fosse resa nella sua interezza. La questione era legata a chi dovesse provare l’inadempimento del debito.

Si è considerato a lungo l’obbligazione del medico come un’obbligazione di mezzi, che quindi non assicurava il risultato, ma che facesse riferimento alle modalità di adempimento dell’operazione. In questi casi dovrebbe essere il creditore (paziente) a provare l’inadempimento.

Professione infermiere: alle soglie del XXI secolo

La maggior parte dei libri di storia infermieristica si ferma alla prima metà del ventesimo secolo, trascurando di fatto situazioni, avvenimenti ed episodi accaduti in tempi a noi più vicini; si tratta di una lacuna da colmare perché proprio nel passaggio al nuovo millennio la professione infermieristica italiana ha vissuto una fase cruciale della sua evoluzione, documentata da un’intensa produzione normativa.  Infatti, l’evoluzione storica dell’infermieristica in Italia ha subìto un’improvvisa e importante accelerazione a partire dagli anni 90: il passaggio dell’istruzione all’università, l’approvazione del profilo professionale e l’abolizione del mansionario sono soltanto alcuni dei processi e degli avvenimenti che hanno rapidamente cambiato il volto della professione. Ma come si è arrivati a tali risultati? Gli autori sono convinti che per capire la storia non basta interpretare leggi e ordinamenti e per questa ragione hanno voluto esplorare le esperienze di coloro che hanno avuto un ruolo significativo per lo sviluppo della professione infermieristica nel periodo esaminato: rappresentanti di organismi istituzionali e di associazioni, formatori, studiosi di storia della professione, infermieri manager. Il filo conduttore del libro è lo sviluppo del processo di professionalizzazione dell’infermiere. Alcune domande importanti sono gli stessi autori a sollevarle nelle conclusioni. Tra queste, spicca il problema dell’autonomia professionale: essa è sancita sul terreno giuridico dalle norme emanate nel periodo considerato, ma in che misura e in quali forme si realizza nei luoghi di lavoro, nella pratica dei professionisti? E, inoltre, come si riflettono i cambiamenti, di cui gli infermieri sono stati protagonisti, sul sistema sanitario del Paese? Il libro testimonia che la professione è cambiata ed è cresciuta, ma che c’è ancora molto lavoro da fare. Coltivare questa crescita è una responsabilità delle nuove generazioni. Le voci del libro: Odilia D’Avella, Emma Carli, Annalisa Silvestro, Gennaro Roc- co, Stefania Gastaldi, Maria Grazia De Marinis, Paola Binetti, Rosaria Alvaro, Luisa Saiani, Paolo Chiari, Edoardo Manzoni, Paolo Carlo Motta, Duilio Fiorenzo Manara, Barbara Man- giacavalli, Cleopatra Ferri, Daniele Rodriguez, Giannantonio Barbieri, Patrizia Taddia, Teresa Petrangolini, Maria Santina Bonardi, Elio Drigo, Maria Gabriella De Togni, Carla Collicelli, Mario Schiavon, Roberta Mazzoni, Grazia Monti, Maristella Mencucci, Maria Piro, Antonella Santullo. Gli Autori Caterina Galletti, infermiere e pedagogista, corso di laurea magistrale in Scienze infermieristiche e ostetriche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma.Loredana Gamberoni, infermiere, coordinatore del corso di laurea specialistica/ magistrale dal 2004 al 2012 presso l’Università di Ferrara, sociologo dirigente della formazione aziendale dell’Aou di Ferrara fino al 2010. Attualmente professore a contratto di Sociologia delle reti di comunità all’Università di Ferrara.Giuseppe Marmo, infermiere, coordinatore didattico del corso di laurea specialistica/ magistrale in Scienze infermieristiche e ostetriche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede formativa Ospedale Cottolengo di Torino fino al 2016.Emma Martellotti, giornalista, capo Ufficio stampa e comunicazione della Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi dal 1992 al 2014.

Caterina Galletti, Loredana Gamberoni, Giuseppe Marmo, Emma Martellotti | 2017 Maggioli Editore

32.00 €  30.40 €

 

Col tempo però si è notato come alcuni alcuni interventi di routine, ovvero di facile risoluzione, fossero così semplici da poter essere equiparati ad un’obbligazione di Risultato. Ci si riferiva a quelle prestazioni talmente semplici che era ovvio che il medico fosse in grado di porle in essere senza problemi, per cui se non si fosse ottenuto il buon esito, si doveva presumere la colpa del medico, per cui il creditore non doveva più provare la colpa del medico stesso.

Compito della giurisprudenza nel tempo è stato quello di facilitare l’onere della prova in capo al paziente, perché per ciò che attiene alla colpa medica siamo nell’ambito di un contesto molto tecnico e che non può essere considerato una scienza esatta, dato il grande riferimento a quella modalità di intervento che avvengono secondo l’ars medica.

Ci si è interrogati, in altri termini, su come potesse il paziente dimostrare che l’inadempimento del medico fosse avvenuto, non avendo però piena cognizione della materia medica.

Per questo si è tentato con le ultime riforme di far ricadere l’onere della prova sul medico, perché è quest’ultimo il soggetto in grado di comprendere a pieno quale grado di difficoltà fosse insito nella singola prestazione medica.

Dopo la riforma del 2001 è pacifico come spetti proprio al debitore (in questo caso il medico) provare di aver posto in essere tutti gli atti volti a garantire il migliore dei risultati. Tale assunto deroga parzialmente al principio generale per cui chi è titolare di un diritto deve provarlo, ma tale deroga avviene nel rispetto di questa spinta giurisprudenziale verso la tutela della posizione del paziente, al quale, altrimenti, se ci si riferisse nei termini della responsabilità contrattuale di cui all’art 1218 c.c., verrebbe chiesto uno sforzo probatorio eccessivo.

Limite a quanto sopra esposto si ha nel caso in cui vi sia stata la nascita indesiderata del feto, in tal caso una pronuncia della Cassazione a Sessioni Unite del 2012, ha stabilito che, per evitare in capo al medico di dover provare il nesso causale tra la sua attività medica e la mancata decisione della gestante di non portare a termine la gravidanza, (qualora fosse stata informata dell’handicap del feto),  sia la gestante ha dimostrare che tale connessione esiste.

Tutto ciò al fine di evitare in capo al medico la c.d., probatio diabolica; spetterà alla donna dimostrare secondo presunzioni che se correttamente informata non avrebbe portato a termine la sua gestazione.

Martino Di Caudo

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento