Non mi è bastato dire «grazie». Lettera di auguri da un cittadino soddisfatto.

Redazione 31/12/16
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Per chiudere il 2016 vogliamo condividere con tutti voi questa toccante lettera di ringraziamento comparsa sul Corriere della Sera: “ testimonianza di A.S., 22 anni, che è dovuto andare al pronto soccorso ematologico del Policlinico Umberto Primo di Roma dove ha trovato umanità e disponibilità“.

Dimostriamo anche per il 2017 che, al di là degli scandali e malcostumi, carenze e guerre interne, la sanità è ancora al servizio del cittadino e sempre lo sarà.

Cogliamo l’occasione per ringraziare tutti i nostri lettori per il prezioso supporto dimostratoci durante questo nostro primo anno insieme. Buon anno a tutti, la Redazione.


“Quella che leggerete è una storia di una Italia che funziona, di una Italia fatta di professionisti, di donne e uomini che dedicano la loro vita per salvare la vita di altre persone. È un elogio, ma anche e sopratutto un invito all’azione che rivolgo a voi che leggerete questo breve testo.

Dopo circa venti giorni di stanchezza e febbre serale mi sono rivolto al medico di base per una visita, il quale mi ha prescritto delle analisi del sangue. Sono andato alla ASL e ho eseguito il prelievo. La mattina seguente ho ricevuto una chiamata al cellulare: era il laboratorio analisi, c’era qualcosa che non andava e dovevo andare di persona in sede.

 Sono corso alla sede della ASL, le analisi mi sono state consegnate a quel punto ho chiamato un professore che mi segue per una patologia che curo da diversi anni. Gli ho chiesto un consulto e di capire come procedere, ma dopo aver letto le analisi mi ha detto di recarmi con urgenza al pronto soccorso ematologico del Policlinico Umberto Primo di Roma.

Vi lascio da parte le emozioni che ho provato. Sono arrivato al pronto soccorso ematologico, una volta entrato sono stato subito accolto da un medico che mi ha chiesto di raccontargli cosa avevo, mi ha poi chiesto di consegnare le analisi e di aspettare in sala d’attesa.

In meno di dieci minuti è uscita una infermiera che mi ha fatto entrare e con un sorriso mi ha accompagnato su una lettiga. Mi è stato subito fatto un prelievo venoso. Dopo pochi minuti è arrivato un medico il quale mi ha spiegato che c’era qualcosa che non andava e che andava approfondito.

Nel mentre mi guardavo intorno: la struttura non era delle più nuove, gli spazi ridotti, i posti non sufficienti. 29 dicembre, medici ed infermieri erano lì, con pazienza e dedizione strappando un sorriso ad una giovane donna, poggiando una mano sulla spalla di un anziano paziente, rispondendo alle domande di alcuni parenti in una vicina sala di attesa.

Ho visto molto prima che professionisti, delle splendide persone mettersi a servizio di noi cittadini. E nel frattempo che aspettavo le risposte e dialogavo con il vicino di lettiga, non riuscivo a non pensare al fatto che questa Italia deve essere valorizzata. Che non ci si può lamentare sempre, che non si può dire «fa tutto schifo», perché è ingiusto, è falso.

E non si può neanche liquidare tutto questo con un «è normale che sia così, io pago le tasse» oppure «è il mestiere loro». Quante volte lo sentiamo dire? Quante volte siamo noi a pronunciare queste frasi?

Aspettavo i risultati di questi test preoccupato e «assente», ma poi non riuscivo a non vedere la forza delle persone accanto a pochi metri che combattevano per la vita. C’era una coppia venuta con i mezzi pubblici da fuori Roma per eseguire trattamenti terapeutici molto importanti, ma non erano gli unici: c’era anche un signore anziano che scherzava con l’infermiere e dava coraggio alla moglie «dai mettiti il cappotto che fa freddo».

Finalmente i risultati: arriva il dirigente medico. I linfociti sono aumentati in modo considerevole per una infiammazione, si tratta di una infezione in corso, ma viene esclusa una patologia acuta in corso. Bisogna fare ulteriori accertamenti nei prossimi giorni.

Ho tirato un enorme sospiro di sollievo. È poi arrivata l’infermiera che mi ha tolto dal braccio l’ago cannula (ho visto su internet che si chiama così!) e mi è stato dato il referto. Potevo tornare a casa.

Uscendo però mi continuavo a sentire in debito. Non mi è bastato dire «grazie», e nemmeno fare gli auguri di buon anno a tutto lo staff.

Sentivo il bisogno di condividere questa esperienza con voi e di renderla di dominio pubblico per numerose ragioni: perché dobbiamo imparare ad essere riconoscenti ed apprezzare il valore ed il lavoro degli altri. Perché non dobbiamo dimenticare mai che c’è chi soffre e ha bisogno di aiuto. Perché dobbiamo fare la nostra parte.

Il 14 dicembre 2015 avevo scritto un post raccontando l’esperienza straordinaria con il volontariato con i disabili ed invitavo per il 2016 i miei amici ad intraprendere iniziative simili. Oggi per il 2017 vi rinnovo questo invito e lo rinnovo a me stesso, ma vi invito a donare alla ricerca, a diventare donatori di sangue, ad offrire il vostro tempo per aiutare, come meglio ritenete opportuno, la società.

A non rendervi sopratutto complici nel digitale e non, di quel gruppo di professionisti che ogni giorno si apprestano a dire tutto quello che non funziona, dimenticando però la propria responsabilità sociale: «Siate il cambiamento che volete vedere avvenire nel mondo», diceva Gandhi.

Vi chiedo quindi nell’era dei social media, di andare oltre la condivisione di questa lettera, oltre i commenti e le riflessioni e di mettervi a disposizione. C’è una Italia straordinaria che chiede di non essere lasciata sola, di essere presa per mano, di essere sorretta, valorizzata. Possiamo fare tanto, dobbiamo fare tanto. Auguri di buon anno.

Ps. Essendo ancora in cura vi chiederei di non firmare questa lettera


Noi tutti, ti ringraziamo. Chiunque tu sia.

Fonte: Corriere della Sera,

Redazione

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