Omicidio colposo alla caposala. Ma le responsabilità del tecnico?

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Prima di continuare la lettura vorrei specificare che le dichiarazioni fatte si basano semplicemente su mie opinioni, limitandosi ad una riflessione critica sulla situazione odierna e sulle responsabilità attribuite agli infermieri.  

Ho letto con una vena di incredulità una serie di articoli riferiti al caso della morte di un paziente a seguito della caduta durante una radiografia eseguita in posizione eretta all’ospedale di Nuoro (lanuovasardegna.itInfermieristicamente.it). La caposala che ha omesso di comunicare al tecnico di radiologia lo stato di salute del paziente dovrà rispondere di omicidio colposo, proprio per la sua omissione. La posizione nettamente prevalente negli articoli sopra richiamati era, quasi sempre, rivolta ad attribuire un certo grado di colpevolezza esclusivamente in capo alla sola infermiera. Al fine di evitare precipitose conclusioni e in attesa che si celebri il giudizio che, proprio in questi giorni, approda alla fase dell’udienza preliminare, colgo l’occasione per fare il punto su una vicenda che troppo frettolosamente è stata indirizzata verso una dazione di responsabilità in capo ad unico soggetto.

La posizione di garanzia

La posizione di garanzia della caposala è sicuramente il primo elemento da analizzare per tentare di districare il senso ultimo di una vicenda dalle diverse sfumature. Il bene da tutelare è la salute del soggetto che viene “preso in carico” dal personale di riferimento e proprio perché il paziente non è in grado di proteggere tale bene giuridicamente tutelato, in questi casi, il ruolo di chi se ne fa carico (il personale sanitario) è certamente particolare, e può involgere vari aspetti della responsabilità penale qualora si arrechi pregiudizio alla salute del paziente. L’infermiera, infatti, nel caso in esame, con il suo colpevole comportamento omissivo (qualora fosse dimostrato in sede penale), integrerebbe un comportamento sussumibile di una valutazione tesa a indirizzarne in senso positivo la personale responsabilità.

Ma è tutto qui?

Molti si sono fermati a questa prima analisi, ma i casi della giurisprudenza ci vengono in aiuto per ampliare lo spettro delle nostre conoscenze ed evitare giudizi affrettati.

In primo luogo, dobbiamo rispondere a un quesito: considerato che il lavoro medico necessita al giorno d’oggi di una sempre costante specializzazione è possibile rintracciare, nel caso in esame, una attività medica pluridisciplinare successiva? A mio modesto parere la risposta è positiva, tale convincimento è supportato dal carattere intrinseco dell’attività sanitaria in esame. In particolari casi, infatti, la necessità di approntare una tutela al bene giuridico della salute deve essere realizzata attraverso attività tecnico-scientifiche la cui competenza è di sanitari diversi, tali attività hanno un tempo e un carattere funzionale necessariamente successivo.

Nulla vieta quindi di ritenere applicabile questo principio al caso prospettato, ed è questo il primo passo di un ragionamento articolato: siamo entrati a piè pari in quello che viene definito come Principio di affidamento.

Il Principio di affidamento

L’applicabilità di tale principio comporta alcune conseguenze logiche che dottrina e giurisprudenza hanno a vario titolo tenuto in considerazione. Spieghiamo in prima istanza a cosa ci riferiamo parlando del principio di affidamento.  La Corte di Cassazione afferma in parte di una sua pronuncia che esso è il: “principio secondo il quale ogni consociato può confidare che ciascuno si comporti adottando le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio dell’attività che di volta in volta è in esame, ed ognuno deve evitare unicamente i pericoli scaturenti dalla propria condotta; in altri termini “significa semplicemente che di regola non si ha l’obbligo di impedire che realizzino comportamenti pericolosi terze persone altrettanto capaci di scelte responsabili” (Cass. pen., Sez. IV, 26 maggio 1999, n. 8006).

Ma i tecnici non hanno responsabilità sui pazienti?

Nel caso di specie la coordinatrice (sempre che sia provata la sua omissione nel non riferire del rischio in capo al paziente) non avrebbe avuto comunque l’obbligo di manifestare la possibilità della realizzazione della fattispecie pericolosa (la posizione eretta del paziente che ne ha cagionato la caduta), perché la stessa delega e fa affidamento ad un soggetto altrettanto capace di scelte responsabili. Nel caso in esame, quindi, l’esperienza del radiologo avrebbe dovuto perlomeno metterlo nelle condizioni di accertarsi in via primaria delle condizioni del paziente e di eventuali rischi.

Il tecnico di radiologia è un sanitario parigrado all’infermiere

A supporto ed integrazione logica di questo ragionamento interviene un’altra pronuncia della corte di legittimità che afferma che in caso di colpa professionale: “ogni sanitario, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, è tenuto ad osservare gli obblighi ad ognuno derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico. Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio o facendo in modo che si ponga opportunamente rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio”. (Cass. pen., n. 24036/2004).

L’intuizione della Corte di cassazione è illuminante sotto vari aspetti e nel caso che ci riguarda fornisce la chiara e attenta valutazione del livello e qualità di operato richiesto al professionista medio (tecnico di radiologia), il quale DEVE informarsi preventivamente sull’operato di chi lo ha preceduto e porre rimedio ad eventuali errori che siano evidenti. Il presunto errore, macroscopico e di lapalissiana evidenza della caposala, sarebbe allora dovuto essere ripreso dal radiologo, il quale,  a seguito del controllo delle condizioni del paziente si sarebbe accorto del rischio generato in quest’ultimo. Per rafforzare questa tesi si tenga in considerazione che la responsabilità del personale sanitario non viene esclusa quando invece lo stesso abbia fatto affidamento su chi non aveva le competenze o l’esperienza(Cass. pen., n. 10435/2004). 

In altre parole l’esenzione o riduzione della responsabilità della caposala non sarebbe potuta essere applicata qualora la stessa avesse fatto affidamento su chi professionista non era o su un altro soggetto non idoneo, cosa che invece non è accaduta proprio in questo episodio. In attesa della celebrazione del processo che sicuramente chiarirà tutti gli aspetti del caso, si è voluto aprire, con la presente stesura, una nuova via per una valutazione che è sembrata scontata per l’opinione pubblica e che invece si presta a varie interpretazioni.

Martino Vitaliano Di Caudo. Praticante Avvocato e Redattore.

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Martino Di Caudo

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