Demansionamento, la Cassazione conferma (di nuovo) le ragioni degli infermieri con ben 3 ordinanze

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Demansionamento infermieristico: sono state ben tre le ordinanze (nn. 21924, 21942 e 23183) con cui, nel mese di luglio 2022, la Cassazione ha rigettato i ricorsi proposti da diverse aziende sanitarie contro le sentenze pronunciate dalla Corte d’Appello di Cagliari (che le avevano condannate a reintegrare gli infermieri nelle loro esclusive attività ed a risarcire i danni non patrimoniali).

Dignità

Le numerose azioni collettive organizzate dai professionisti per tutelare la propria dignità e la propria immagine professionale (lese dalle suddette aziende), quindi, sono state ancora una volta validate dalla Suprema Corte.

Già, perché per anni, anche in Sardegna, gli infermieri sono stati obbligati, a causa della gravissima e perpetua carenza di personale di supporto, a svolgere attività tipiche delle categorie ‘inferiori’ (secondo la declaratoria contrattuale).

Mortificazione

Cosa che li ha costretti, oltre a una pressoché insanabile mortificazione professionale, anche e soprattutto a sacrificare le proprie reali responsabilità e a tralasciare l’intero processo di nursing, intanto che rifacevano letti, rispondevano ai campanelli e spingevano barelle.

Condizione strutturale

Come spiegato nell’ordinanza 11 luglio n. 21942, “era emersa una condizione strutturale di carenza di personale addetto allo svolgimento di mansioni di base, che aveva portato gli infermieri a svolgere le mansioni inferiori, quali: il rifacimento dei letti, la distribuzione del vitto, la pulizia ed il cambio di padelle e pappagalli, la cura dell’igiene personale dei pazienti allettati, la movimentazione degli stessi.

Dal quadro probatorio emergeva che il ricorso agli infermieri professionali non era limitato, come dedotto dalla AZIENDA appellante, a rari casi, coincidenti con particolari esigenze cliniche ma era invece costante ed imprescindibile, alla luce della grave carenza di personale di assistenza di base”.

La rilevanza quantitativa

Altresì, nell’ordinanza 11 luglio n. 21924, è spiegato chiaramente: “La rilevanza quantitativa della prestazione relativa alle qualifiche inferiori era tale da escludere che il loro svolgimento potesse essere considerato come obbligazione accessoria, che per sua natura doveva avere una rilevanza marginale ed essere funzionalmente collegata alla obbligazione principale”.

Nell’ordinanza del 25 luglio n. 23183, poi, è sottolineato: “La Corte territoriale ha accertato il verificarsi del danno non patrimoniale alla immagine professionale ed alla dignità dei lavoratori attraverso la prova per presunzioni, fondata sulle circostanze concrete del demansionamento e, in particolare, sulla sua frequenza e sul carattere pubblico”.

Danno all’immagine professionale

Ma non solo: la contestata “mancanza di prova del cambiamento delle abitudini di vita” è da considerarsi del tutto irrilevante, “venendo in rilievo il danno all’immagine professionale e non un danno di tipo esistenziale”.

Sull’immagine di sé che l’infermiere demansionato dà all’esterno (ovvero alle altre figure professionali e ai cittadini) la Cassazione, nell’ordinanza dell’11 luglio n. 21924, è cristallina: “La consistenza qualitativa e quantitativa del demansionamento consentiva di desumere, sulla base della comune esperienza, che l’esercizio promiscuo di mansioni proprie del profilo di appartenenza e di mansioni di livello anche assai inferiore era idoneo ad ingenerare nei degenti una confusione di ruoli, per cui l’utente si aspettava (e pretendeva) dall’infermiere anche i compiti dequalificanti: risultavano provati il disagio personale e la sofferenza interiore, per l’apparenza creata all’esterno”.

Ecco quindi spiegata, in poche righe, la mancata crescita sociale (con tutto ciò che ne consegue, stipendi ridicoli inclusi) dell’Infermieristica italiana, con tanto di pesci in faccia presi costantemente dalla politica.

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