Un’infermiera vittima di mobbing spiega in una lettera come vincerlo

Redazione 31/08/18
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Pubblichiamo la lettera di D. B. giovane infermiera vittima di mobbing di origini siciliane che ha subito vessazioni e soprusi sul posto di lavoro ma come fanno molti, purtroppo, ha preferito non denunciarli.  Vittima di mobbing spiega in una lettera come vincerlo. Per fortuna la sua esperienza di mobbing infermieristico ha avuto un lieto fine.

Rhian Collins aveva 30 anni: infermiera di Swansea, nel Galles del sud, madre di due bambini, si è impiccata in casa sua lo scorso marzo. Un tribunale, in questi giorni sta ripercorrendo con dovizia di particolari la sua vicenda, per capire se per quella morte possono esserci responsabili. Rhian lavorava presso il “Cefn Coed Hospital”, una struttura psichiatrica, ma era finita in una spirale di mobbing perpetrata dai suoi colleghi, che facevano a gara pur di lasciarle il turno più disagevole ed emarginarla dalla vita sociale. Lei aveva cercato di reagire lavorando sul suo aspetto: si era iscritta in palestra e messa a dieta, con un’attenzione quasi maniacale al proprio aspetto. Un modo per distogliere attenzioni ed energie alla difficile situazione che viveva sul lavoro, da cui peraltro aveva anche tentato di andar via, presentando domande per altre strutture. Ma non era riuscita. Un mese prima di farla finita, secondo amici e parenti Rhian appariva molto depressa e minata emotivamente. Alla metà dello scorso marzo sparisce senza dare più segni di vita: il suo cellulare suona ma lei non risponde, così come al campanello di casa. Un atteggiamento che aveva messo in allarme i familiari, che ricordano di averle sentito pronunciare più volte la parola suicidio. Da qui la triste verità: Rhian si era uccisa.

Quando ho letto questa notizia, ho subito provato rabbia per questa giovane e bellissima mamma infermiera. Rabbia perché abbiamo così tanti uffici preposti a questi tipi di violenza psicologica, ma spesso non basta. Quando ricevi mobbing, lotti questa opaca quotidianità e ti difendi al meglio che puoi, cioè cercando di trovare delle soluzioni, parlando con i colleghi, la coordinatrice, gli organi competenti dell’ufficio infermieristico, sindacalisti, familiari e in extremis sei costretto a rivolgerti a psicoterapeuta e avvocato…

Quando poi nessuno di questi ti permette di risolvere il problema e ti senti come in una stanza senza vie d’uscita, l’unica è, forse, quella di mollare tutto, di licenziarti e salvaguardare la tua stima distrutta e l’orgoglio professionale gambizzato. Ti senti arrabbiato perché ti hanno calpestato, deriso, la tua dignità è sotto i piedi.

Nel mio caso tutto è iniziato piano piano. A poco a poco. La violenza psicologica dura tanto tempo. È una sorta di complotto, di piano diabolico che tramano alle tue spalle. Ricordo che i miei colleghi coetanei per esempio, hanno iniziato a non rivolgermi più la parola; dunque ho provato a parlare con le operatrici sociosanitarie, più grandi di me.

In principio ho pensato, bah saranno amici, magari non vogliono inglobarmi nel loro nucleo; sicuramente non stavo simpatica a qualcuno e, forse, c’era anche un pizzico d’invidia. Avvertivo una chiusura terribile nei miei confronti, un’atmosfera cupa, una sorta di “nebbia che si tagliava col coltello”.

Ho assistito a un comportamento quasi materno e nello stesso tempo da matrigna, di una caposala che proteggeva e puniva tutto e tutti, quasi avesse pieni poteri, nel bene e nel male. Il reparto pareva autogestito da una banda di infermieri e da alcuni operatori che decidevano le sorti dei nuovi entrati e prenotavano il confessionale dalla protettrice=madre, amata caposala.

Li per lì appena arrivata mi hanno chiesto 3 volte se sapevo dove fossi finita, in che luogo ameno e maligno … Adesso- col senno di poi- ho capito. Gli atteggiamenti vessatori si sono manifestati tutti pochi mesi dopo la mia assunzione. Tra strane volontà di non corrispondere al mio saluto e piantonamenti quasi militareschi, per alcuni colleghi non avevo un nome, o forse ero innominabile, fatto sta che dovevo correre dopo un un battito di mani o un fischio.

E vogliamo parlare dei richiami davanti ai pazienti? Questi non mancavano anche da parte della caposala/coordinatrice. Le soluzioni per uscire da questa stanza prima opaca e via via sempre più buia? Ci sono. Intanto parlarne con la propria famiglia, poi mi sento di dire che ci si può rivolgere ai sindacalisti, anche se spesso invano.

Senz’altro è importante rivolgersi all’ufficio infermieristico, ma state attenti anche qui, se vedete che non vi cambiano reparto andare direttamente in direzione, ufficio personale, risorse umane, insomma: fate tante ma tante telefonate! Esponetevi e fate arrivare a chi di dovere la vostra richiesta. E ricordatevi che come canta Caparezza: «Non è vero che non c’è una chiave», vedrete che infrangendo la soglia della paura troverete la stanza delle opportunità.”

L’Italia, secondo le statistiche europee si trova all’ultimo posto nella classifica dei casi di mobbing, con il 4,2%. Se si leggessero superficialmente questi dati, si potrebbe dedurre che il terrorismo psicologico nei posti di lavoro è praticamente assente dagli scenari italiani. Purtroppo la realtà è ben diversa e il risultato appare buono solo perchè nel nostro Paese non si riesce ancora a stimare il fenomeno in termini quantitativi.

Il mobbing in Italia è un fenomeno che assume connotazioni e caratteristiche molto profonde e talvolta mai riscontrate negli altri Paesi. Ege (1997) parla infatti di “mobbing culturale”, sostenendo che stereotipi, aspettative e valori propri di una società condizionano fortemente questo fenomeno. Questa peculiarità tutta italiana in fatto di mobbing può derivare dal fatto che lo studio della violenza psicologica sul posto di lavoro è iniziata con notevole ritardo rispetto ad altre nazioni.

Le vittime italiane, inoltre, difficilmente accettano di essere oggetto di mobbing e tendono ad addossare la colpa della situazione interamente su se stesse. Ege sostiene che una possibile spiegazione sta nel fatto che l’italiano è per natura individualista e non è portato per la cultura di gruppo.

 

Paolo A. Pagano

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