La reiterazione dei contratti a termine non trasforma il determinato ad indeterminato

Redazione 10/04/19
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Riceviamo e pubblichiamo il Commento a Sentenza Cass. Sez. Lavoro n. 5432 del 2019 a cura del Dott. Carlo Pisaniello (AADI).


La Cassazione ribadisce che la reiterazione dei contratti a termine nel pubblico impiego non trasforma il rapporto di lavoro da tempo determinato ad indeterminato.

Una dipendente assunta con il profilo di operatore di sostegno, categoria C, comparto unico della Valle d’Aosta, a seguito della reiterazione di tre contratti a tempo determinato succedutisi nel tempo, proponeva ricorso al Giudice del lavoro in ragione del superamento del limite temporale di 9 mesi, chiedendo di;

a) accertare la illegittimità dell’apposizione del termine, ossia, la trasformazione dei contratti in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze della Regione Valle d’Aosta a far data della prima stipulazione;

b) ottenere la corresponsione delle somme non percepite nei periodi di interruzione del rapporto di lavoro tra i singoli contratti;

c) il risarcimento dei danni derivati dall’abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato, da liquidarsi nella misura di venti mensilità della retribuzione globale di fatto o nella diversa misura ritenuta di giustizia;

d) la condanna della Regione Valle d’Aosta “in ogni caso…a rifondere alla ricorrente tutti i danni patiti in conseguenza del contegno illegittimo tenuto dal datore di lavoro nel caso per cui è giudizio da liquidarsi anche in via equitativa da parte del Giudice del Tribunale di Aosta, salva determinazione nei termini di legge“.

Il Giudice di prime cure del Tribunale di Aosta, ha ritenuto fondate le ragioni dell’illegittimità prospettate in ricorso, negando però la conversione del rapporto di lavoro da determinato ad indeterminato stante il divieto di cui all’art. 97, comma 3 Cost. e dell’art. 36, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001, riconoscendo però il diritto della ricorrente al risarcimento del danno conseguente alla abusiva reiterazione e, in applicazione analogica dell’art. 18 L. n. 300/70, liquidando il danno nella misura di venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;

rigettava poi la domanda risarcitoria per il mancato pagamento della retribuzione nei periodi non lavorati intercorsi tra i diversi contratti, mentre riconosceva, in caso di continuità dei contratti a tempo determinato con la sola interruzione dell’attività scolastica coincidente con le vacanze estive, la retribuzione illegittimamente non pagata (pari a complessivi euro 10.510,00).

La sentenza veniva impugnata dalla Ragione Valle D’Aosta e incidentalmente dalla stessa lavoratrice.

La Corte di Appello di Torino accoglie parzialmente l’appello della Regione Autonoma Valle d’Aosta e respinge l’appello incidentale della lavoratrice negando il diritto di quest’ultima al risarcimento del danno riconosciuto dal primo giudice riformando il capo della sentenza di primo grado che aveva condannato la Regione al pagamento, in applicazione analogica dell’art. 18 legge n. 300/70, di venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre ad euro 10.510,00 per i periodi feriali estivi illegittimamente non pagati.

Le motivazioni del rigetto posto a fondamento della sentenza espressa dalla Corte territoriale sono riconducibili ai seguenti motivi:

a) i contratti a tempo determinato erano stati stipulati in violazione della L.R. n. 68 del 1989 e della L.R. n. 22 del 2010, art. 42 che, con norme di identico contenuto, stabiliscono che il ricorso ai contratti a termine da parte della Regione deve essere giustificato da esigenze straordinarie e temporanee, prevedendo il limite temporale di nove mesi;

b) è respinta la domanda volta ad ottenere la conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in quanto la pretesa è contrastante con l’art. 97 Cost. e con il D.Lgs. n. 165 del 2001 agli artt. 35 e 36; tali disposizioni infatti hanno carattere speciale e prevalgono sulla disciplina del contratto a termine dettata dal D.Lgs. n. 368 del 2001, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 14350 del 2010, Cass. n. 392 del 2012);

c) in ossequio alla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 392 del 2012 cit.), il danno non può ritenersi in re ipsa, ma deve essere dimostrato in giudizio dalla lavoratrice, la quale, non aveva fornito alcuna allegazione in merito al danno patito.

Ricorre per Cassazione la lavoratrice depositando in atti la sent. SS.UU. n. 5072 del 2016 e con controricorso si costituisce la Regione Valle d’Aosta.

Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta violazione di legge in relazione a direttive comunitarie, sostenendo che, in un’interpretazione conforme al diritto dell’Unione, occorrerebbe interpretare le disposizioni di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001 nel senso ravvisare un’ipotesi di deroga al divieto di conversione statuito dall’art. 36 di tale decreto nel caso di reiterazione illegittima di contratti a tempo determinato da parte della Pubblica Amministrazione.

Con il secondo motivo, denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 36 D.Lgs. n. 165 del 2001 e della clausola n. 5 dell’Accordo quadro europeo CES, UNICE e CEEP in tema di contratti a termine, censurando la sentenza nella parte cui non ha riconosciuto il risarcimento del danno ritenendo che lo stesso dovesse essere oggetto di prova e non potesse essere liquidato quale conseguenza immediata e diretta dell’accertato ricorso abusivo da parte del datore di lavoro alla stipulazione di contratti a tempo determinato.

Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta violazione di legge in relazione agli artt. 1218, 1223, 1226, 1227, 2056 e 2697 cod. civ. e alla clausola n. 5 dell’Accordo, nonché vizio di motivazione, nella parte in cui la sentenza ha ritenuto che la ricorrente non avesse fornito alcuna allegazione né deduzione probatoria in merito al danno patito e nella parte in cui ha riformato la sentenza di primo grado escludendo il diritto al risarcimento del danno pari alle retribuzioni non percepite nel periodo feriale.

Inoltre, lamenta che a norma degli artt. 1218 e 1223 cod. civ., devono essere risarciti anche i pregiudizi patiti dal creditore a titolo di perdita subita e/o mancato guadagno che siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del debitore, ossia il danno emergente e lucro cessante.

La Corte infatti aveva omesso di considerare il fatto dello stato di disoccupazione derivante dalla perdita del posto di lavoro, oltre che il fatto della perdita della retribuzione per i periodi non lavorati, tutti fatti produttivi di danno risarcibile indotto dall’abuso imputabile alla Pubblica Amministrazione.

La Cassazione analizzati i motivi di ricorso spiega che; in ordine alla mancata conversione del rapporto di lavoro, va richiamato il consolidato orientamento della Corte costituzionale, cui si è uniformata la costante giurisprudenza di questa Corte.

L’art. 36, comma 8, del D.lgs. n. 29 del 1993 (poi trasfuso nell’art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001), secondo il quale la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, si riferisce a tutte le assunzioni avvenute al di fuori di una procedura concorsuale, operando anche nei confronti dei soggetti che siano risultati solamente idonei in una procedura selettiva ed abbiano, successivamente, stipulato con la P.A. un contratto di lavoro a tempo determinato fuori dei casi consentiti dalla contrattazione collettiva, dovendosi ritenere che l’osservanza del principio sancito dall’art. 97 Cost. sia garantito solo dalla circostanza che l’aspirante abbia vinto il concorso.

Come affermato dalla sentenza n. 89 del 2003 della Corte costituzionale, il principio dell’accesso mediante concorso rende palese la non omogeneità del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto di lavoro alle dipendenze di datori privati e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare, alla violazione delle norma imperative, conseguenze solo risarcitorie e patrimoniali (in luogo della conversione del rapporto a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati); né contrasta, infine, con il canone di ragionevolezza, avendo la stessa norma costituzionale individuato nel concorso, quale strumento di selezione del personale, lo strumento più idoneo a garantire, in linea di principio, l’imparzialità e l’efficienza della pubblica amministrazione. (v. ex plurimis, tra le più risalenti, Cass. n. 11161 del 2008; conf., tra le più recenti, in fattispecie del tutto analoga a quella in esame, Cass. n. 7982 del 2018).

Il concorso pubblico costituisce quindi la modalità generale ed ordinaria di accesso nei ruoli delle pubbliche amministrazioni, anche delle Regioni, pure se a statuto speciale (vedi, per tutte: Corte cost. sentenze n. 211 e n. 134 del 2014; n. 227 del 2013; n. 62 del 2012; n. 310 e n. 299 del 2011; n. 267 del 2010; n. 189 del 2007).

I casi di eccezionalità, ossia di derogare per legge al principio del concorso per il reclutamento del personale è prevista dall’art. 97, comma terzo, Cost., corrispondere a straordinarie esigenze d’interesse pubblico, individuate dal legislatore in base ad una valutazione discrezionale, effettuata nei limiti della non manifesta irragionevolezza (vedi, per tutte, Corte cost. sentenze n. 134 del 2014; n. 217 del 2012; n. 89 del 2003; n. 320 del 1997; n. 205 del 1996).

Quanto poi alla giurisprudenza della CGUE, la clausola 5, punto 2, dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, non istituisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato, né prescrive a quali precise condizioni si possa far ricorso a questi ultimi, essa lascia un certo potere discrezionale in materia agli Stati membri (sentenza del 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04, EU:C:2006:517, punto 47).

Da ciò discende che la clausola n. 5 dell’Accordo quadro non osta, in quanto tale, a che uno Stato membro riservi un destino differente al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, a seconda che tali contratti o rapporti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico (sentenza del 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04, EU:C:2006:517, punto 48).

Tuttavia, affinché una normativa nazionale che vieta nel solo settore pubblico la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo determinato, possa essere considerata conforme all’Accordo quadro, l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve prevedere, in tale settore, un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato (sentenza del 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04, EU:C:2006:517, punto 49).

Tali principi sono stati di recente ribaditi dalla Corte di Giustizia, con la sentenza del 7 marzo 2018, C-494/16 (Giuseppa Santoro contro Comune di Valderice e Presidenza del Consiglio dei Ministri), adita in sede di rinvio pregiudiziale dal Tribunale civile di Trapani.

La CGUE ha affermato che, in tema di contratti conclusi con un datore di lavoro pubblico e di misure dirette a sanzionare il ricorso abusivo ai contratti a tempo determinato, la clausola 5 dell’Accordo quadro, dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che da un lato, non sanziona il ricorso abusivo nel settore pubblico ad una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e dall’altro, che prevede la concessione di un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione di detto lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il risarcimento integrale del danno dimostrando, mediante presunzioni, la perdita di opportunità di trovare un impiego, purché una siffatta normativa sia accompagnata da un meccanismo sanzionatorio effettivo e dissuasivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.

Tale pronuncia consente di ritenere validato quindi l’orientamento interpretativo espresso dalle SS.UU. di questa Corte con la sentenza n. 5072/2016, che ha enunciato i seguenti principi di diritto:

  1. In materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della I. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario“, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito” (Il principio è stato ribadito da Cass. nn. 4911, 4912, 4913, 16095, 23691 del 2016 e da nn. 8927 e 8885 del 2017 e da molte altre successive);

  2. b) “In materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui all’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di “chance” di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c.”.

La sentenza impugnata, essendo risalente ad epoca anteriore al succitato orientamento interpretativo, va dunque cassata, il giudice di rinvio dovrà quindi riesaminare il merito della domanda risarcitoria applicando le regole di giudizio sopra enunciate.

Il ricorso va quindi accolto e la sentenza impugnata va cassata, nei sensi di cui in motivazione, in ordine alle statuizioni relative al risarcimento del danno, con rinvio alla Corte di appello di Torino, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Si ribadisce ancora una volta quindi che, nell’ambito del rapporto di lavoro del pubblico impiego ancorché privatizzato non è possibile convertire i contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato e va concessa solo una indennità risarcitoria che va da 2,5 a 12 mensilità.

Dott. Carlo Pisaniello

Redazione

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