Perché ci fa tanto arrabbiare l’infermiere Pino di “Tutto chiede salvezza”

Rispondiamo a Draoli (OPI Grosseto) sul perché indignarsi è sempre giusto

Dario Tobruk 26/10/22
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Non accenna a spegnersi la polemica sui social che riguarda Pino, l’infermiere rappresentato nella serie Netflix “Tutto chiede salvezza” tratta dal libro omonimo di Daniele Mencarelli. Testo in cui il paziente/autore racconta la sua esperienza in un reparto di psichiatria.

Tant’é che Nicola Draoli (OPI Grosseto), referente FNOPI per la comunicazione, ha dovuto sedare gli animi con un lungo intervento su Linkedin in cui chiedeva riflessioni approfondite a tutta la categoria.

Eppure nonostante tutto continuo a sentirmi indignato per l’ennesima distorsione dell’immagine della professione. In questo articolo rispondo al consigliere FNOPI e a chiunque voglia partecipare al dialogo sul perché l’infermiere Pino, ed ogni, singola, parodia dell’infermiere, di ogni singola serie o film, ci fa così tanto arrabbiare.

Io non sono mai stato l’infermiere Pino

Nicola Draoli, nel suo lungo post affronta punto per punto la diatriba e traccia la sua visione a memoria futura, per questa ed altre polemiche.

Invitati alla riflessione non posso che unirmi al dialogo, rispondendo anch’io su alcuni punti e sui motivi che mi spingono a dover intervenire personalmente.

1) L’oggetto della serie: Draoli ricorda che “Il mondo sanitario, compreso quello infermieristico, entra marginalmente nella storia se non come gancio per sviluppare l’esperienza personale e soggettiva del protagonista“.

Ovvio che qui non si critica il contenuto del libro, sacrosanta espressione artistica e vissuto doloroso del paziente/autore che ricorda, a mo’ di letteratura, ogni passaggio dei giorni vissuti in quello che si possa senza alcun dubbio ritenersi un inferno. A me a indignarmi è la forma dello sceneggiato della serie Netflix.

2) L’autobiografia: “Confutare la visione personale dell’autore è un esercizio non solo inutile ma anche profondamente scorretto.” è il succo del secondo punto della riflessione di Draoli.

Ebbene non sono d’accordo, escludendo del tutto questa particolare storia, e in difesa del paziente, vorrei ricordare a chi sposa la tesi del “ma sì, so bravi ragazzi” che la creazione artistica è libera sia nella sua espressione che nella sua interpretazione.

Hemingway era un genio della letteratura del Novecento, eppure molte donne di oggi non si sentono per nulla rappresentate dalla sua visione “maschilistica” e “machista”; quante infermiere oggi si sentirebbero rappresentate dall’infermiera Barkley?

Allo stesso modo, possiamo sempre apprezzare “Tutto chiede salvezza” sia in veste di libro che in quanto serie, e nel contempo irritarci quando vediamo Pino spazzare la stanza o nell’incontinenza del suo lato oscuro, razzista e meschino. Io non sono mai stato l’infermiere Pino. Non mi rappresenta. E basta.

Nulla da ridire su possibili rimedi futuri: “Quello che si può fare è prendere contatti con la produzione e cercare di capire perché si è deciso di rappresentare l’infermiere in tal modo; quale esperienza traumatica è stata vissuta; come si può lavorare in futuro per descrivere con maggiore realismo e nitidezza la nostra professione, così complessa.“. Credo, in ogni caso, sia doveroso, anzi un atto di onestà intellettuale poter distinguere le responsabilità (o le colpe) della produzione da quelle dell’autore.

3) L’epoca della narrazione e lo split temporale: Draoli riconosce che riportare ai giorni nostri un episodio accaduto trent’anni fa sia stato un grosso errore della produzione: “Quindi anche il sistema sanitario, compreso l’infermiere, è frutto di un ricordo dell’autore di 30 anni fa. E di questo va tenuto conto, ma solo se si conosce l’opera-libro.“.

La decontestualizzazione storica di un evento per trasportarla ai giorni nostri è, senza alcun dubbio, la volontà dei sceneggiatori di attirare quanto più pubblico giovane possibile. È marketing a tutti gli effetti, non arte: non tutti gli spettatori sapranno che i fatti risalgono al ’94, in molti guarderanno un infermiere che scopa in reparto e si comporta poco professionalmente, oggi.

Inoltre Pino non è nemmeno un anti-eroe, o un cattivo cattivo. È solo un infermiere di poco valore. Come quando i miei pazienti lombardi scoprono che sono siciliano e per qualche strano motivo mi citano Montalbano. Ai loro occhi divento la somma delle narrazioni di cui dispongono. Uomo, siciliano, infermiere. Infine mi conosceranno e, solo allora, sarò Dario.

Secondo lo storico e saggista Harari l’uomo è un animale sociale che si racconta delle storie. Le persone usano le narrazioni comuni per rinforzare i propri pre-giudizi (positivi o negativi che siano): ogni deturpazione del decoro della professione diventa immediatamente proprietà di ogni singolo infermiere. Non è una cosa da poco.

4) La iper-semplificazione di un’immagine: qui il referente per la Comunicazione della FNOPI denuncia quanto sia sbagliato ricorrere a pochi elementi della serie per scatenare una polemica attorno alla stessa, in quanto “autoalimentiamo una narrazione sbagliata di noi stessi che ho notato era sfuggita ai più. Moltissimi post e commenti che ho letto, provenienti anche da colleghi, non si sono proprio ACCORTI di quegli errori. Perché il focus della narrazione era altro, perché la concentrazione era verso altro. I miei amici non-infermieri, poi, non riusciranno nemmeno a capire di cosa stiamo parlando in questo post! “.

Anche qui è difficile concordare con questa affermazione: rimproverare agli infermieri di porre un giudizio basato su pochi elementi, quando afferma che a suo avviso gli altri numerosi colleghi “non si sono proprio ACCORTI di quelli errori” e che i suoi (limitati statisticamente) amici non-infermieri “non riusciranno nemmeno a capire di cosa stiamo parlando“, è chiaramente una pari fallacia induttiva, ovvero una generalizzazione che rafforza le nostre convinzioni partendo dai pochi elementi raccolti dalla propria esperienza quotidiana.

Anch’io ne sono vittima: sono convinto che il mondo sottovaluti gli infermieri. Per questo motivo mi indigno facilmente, ho troppi nervi scoperti.

5) Perché non mettersi mai in discussione? il VERO punto dell’opera, ovvero: quale sistema sanitario e sociale abbiamo oggi per rispondere ai bisogni di salute mentale?” Concordo, mettersi in discussione è il vero punto della situazione. Siamo i primi a metterci continuamente sotto lo sguardo di una lente indagatrice, esplorando per primi tutti i nostri lati più oscuri e irriducibili. Ma…

Insomma, è un’occasione persa usare quest’opera per criticare due o tre passaggi sicuramente impropri sulla figura infermieristica e non concentrarci invece, come professionisti, il dibattito sanitario, sociale e culturale che ci offre.“, e no!

Non per forza: o questo o quello. Chi ha posto una dicotomia tra le due questioni? Io voglio mettermi in discussione e ANCHE, combattere l’indecorosa rappresentazione mediatica dell’infermiere. Una cosa non esclude l’altra!

Guardate che basta anche l’amico infermiere del regista che racconta in modo sbagliato la sua professione e poi il regista, in buona fede, eleva quello spaccato personale a verità assoluta di una intera categoria.” alle volte basta che un regista guardi i prodotti di un altro regista per farsi la stessa idea.

5-bis)Ma vogliamo forse negare che la salute mentale in molte realtà italiane per anni ha rappresentato il refugium peccatorum di colleghi non propriamente eccelsi? Vogliamo negare l’evidenza che probabilmente nel 1994 la presenza infermieristica era DAVVERO così come descritta? A voi la risposta.“. Scusi, ma questa è un’opinione.

Chi ha i dati per descrivere la professionalità della categoria 30 anni fa? Del ’94, io ricordo solo il profilo professionale. Non credo proprio che il legislatore abbia avuto, allora, remore nell’affermarne la professionalità. Perché dovremmo farlo noi?

6) I limiti tecnici dell’intera operazione, infine. In una lunga conclusione Nicola Draoli afferma: “E’ OVVIO che la semplificazione della produzione, anche per contenere i costi, abbia individuato un operatore sanitario come un tutt’uno. Non oso immaginare cosa dovrebbero dire i poliziotti o i carabinieri per tutte le volte che vengono semplificati e narrati di volta in volta come incompetenti, semplicioni, corrotti o semplicemente in attività del tutto inusuali in migliaia di produzioni.“.

A me personalmente non pare ovvio, pare colpevole, soprattutto se semplificare significa ridurre la complessità di una professione a pantomima. Che poi le Forze dell’Ordine non reagiscano, non importa. Noi reagiamo, noi ci indigniamo.

Però le questioni sono sempre più complesse quando si parla di prodotti artistici e devono prevedere un analisi dell’opera un tantino più profonda, passaggio che sinceramente ho visto poco in chi si è indignato.

E qui è dove mi sono sentito personalmente offeso come iscritto e come infermiere. È un grave bias, che rimprovero a Draoli, convincersi che dall’altra parte delle proprie argomentazioni ci sia sempre lo sciocco da convincere. Può capitare ma non è la regola.

 “Continuo a sottolineare che, in questi casi, il lavoro da fare è prima non dopo. ” come non corrispondere a questo monito.

Ed è per questo che Dimensione Infermiere attua una politica di Tolleranza Zero, per prevenire, per far sentire l’indignazione, la stanchezza e la rabbia di migliaia di infermieri che non tollerano più affronti alla professione.

Concludo. Perché se questa è l’Era delle Grandi Battaglie: contro il razzismo con il movimento Black Lives Matter, l’ecologia e i giovani ambientalisti, il patriarcato combattuto dalle femministe, cosa ci impedisce di chiedere il rispetto che meritiamo come professione?

Ed eventualmente di combattere e indignarci, liberamente, solo perché lo crediamo giusto.

Sempre a disposizione, anche per un’opinione diversa quando serve.

Dario Tobruk, direttore DimensioneInfermiere.it

Dario Tobruk

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