L’episodio di caos al San Raffaele raccoglie storie di un clima allarmato tra i degenti, costringendoli a una continua vigilanza sulla propria terapia per paura di errori fatali da parte di infermieri impreparati.
Il caos al San Raffaele raccontato da un paziente
“È arrivato un infermiere con una pastiglia di tachipirina tra le mani nude, senza guanti. Me l’ha messa sul petto e l’ha spezzata in due. In quel momento stavo molto male, poi ho messo a fuoco i rischi per un paziente immunosoppresso come me” questo è parte del racconto dell’orrore assistenziale vissuto da un paziente nei giorni che hanno contraddistinto il Caso San Raffaele, fatto che entrerà negli annali in quanto per la prima volta un dirigente di altissimo livello a pagato con la sua posizione l’errore di risparmiare sulla qualità delle cure.
L’intervista raccolta dall’agenzia di stampa AGI, registra in prima persona i giorni di sgomento vissuti da un paziente 45enne ricoverato per una mononucleosi durante il caos al San Raffaele
Il giovane degente, una volta valutato dal Pronto Soccorso dell’ospedale, è stato trasferito nel reparto di medicina ad alta intensità dove ha vissuto i fatidici giorni dell’ormai noto episodio dell’ospedale San Raffaele, ovvero l’affido ad una cooperativa esterna del personale infermieristico in turno mettendo a rischio i pazienti ricoverati a causa del livello elevato di impreparazione dovuto al fatto che gli infermieri risultassero non avere i requisiti di formazione minimi ne di preparazione e ne di comprensione dell’italiano.
Le indagini della Procura di Milano sono ancora in corso e si rimane in attesa del primo registro degli indagati.
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Una lunga serie di spiacevoli eventi e la paura di essere vittima di errori
“Già al pronto soccorso, la notte prima del ricovero, noi in attesa di essere visitati sentivamo gli infermieri parlare delle notizie sul San Raffaele. Quando la febbre è scesa e stavo meglio, ho cercato in google con le parole ‘caos al San Raffaele’ e ho letto che alcuni pazienti denunciavano di avere ricevuto dosi dieci volte superiori a quella consentita. Ho cercato di restare il più possibile vigile e così ha fatto anche il mio vicino di letto. Ci aiutavamo a vicenda, in base a come stavamo.“
Non possiamo nemmeno immaginare il livello di ansia e agitazione che hanno dovuto subire i pazienti che avevano, con ogni diritto, perso il basilare rapporto di fiducia con la struttura che li aveva accolti in un momento tanto delicato della loro vita.
Questa testimonianza rivela una realtà drammatica in cui la paura si diffondeva persino tra i degenti, costretti a trasformarsi in vigilanti sulla propria cura e a cercare sostegno reciproco per sopperire a un senso di sicurezza clinica ormai compromesso.
Ma l’intervista non termina qui e ci regala ancora alcuni momenti di notevole meraviglia: “Arrivano due infermiere sudamericane. Una non riesce a far partire la macchina della pressione, interviene l’altra che la misura e mi rassicura che i valori sono buoni. Ma sento la febbre, apro il cassetto e prendo il termometro. Lo infilo sotto al braccio e, dopo due minuti, lei mi dice ‘toglilo, ha suonato’. Le spiego che quel tipo di termometro non suona. Sono molto stanco. Mi accorgo, dopo che se ne sono andate, che l’infermiera ha lasciato la macchina della pressione accesa, ogni 5 minuti andava in allarme e gonfiava il braccio. Per fortuna sono un informatico e sono riuscito a disattivarla”.
E ancora, il paziente che continua, quando arriva un “infermiere egiziano” che spezzandogli una compressa di paracetamolo sul petto e subito “è il turno di altri due infermieri che vogliono darmi il paracetamolo”. ‘Me l’avete dato due ore fa!’ protesta giustamente il paziente. “Controllano e vedono che l’infermiere egiziano non aveva segnato di avermelo dato”.
E continua “Gli infermieri vanno dal mio vicino e gli vogliono dare il paracetamolo, lui gli spiega che sono io quello che ha la febbre. Hanno invertito i letti […]. Nella stanza a fianco della mia c’erano tre anziane, chissà se loro hanno avuto la lucidità di accorgersi di eventuali sbagli”.
Quando finalmente “Arriva Francesco, il primo infermiere italiano, è a gettone. Dice che a breve andrà a lavorare in una rsa perché lì non ce la fa più a lavorare. È il primo spiraglio di luce: ha un’esperienza di 20 anni, è preparato”.
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