Può una brutta giornata di lavoro per un infermiere trasformarsi in un incubo? Quante volte abbiamo pensato di vivere in un dramma quotidiano continuo, e che la vita di un infermiere dovrebbe essere raccontata in un film?
“L’Ultimo Turno”, il film della regista svizzera Petra Biondina Volpe, festeggiata al Festival di Berlino da critica e pubblico, è proprio questo: la dimostrazione che quella che noi chiamiamo “una brutta nottata” è più che sufficiente per tenere lo spettatore in uno stato di tensione costante.
In uscita oggi in anteprima nazionale e dal 20 agosto in tutti i cinema, siamo riusciti a vedere il film in anteprima per voi e a intervistare la regista.
“L’Ultimo Turno” è uno specchio attraverso cui gli infermieri potranno osservare il proprio lavoro da una prospettiva diversa: quella dello spettatore.
E decidere, alla fine, se esserne orgogliosi oppure riconoscere che, forse, è troppo per chiunque.
Una brutta nottata di un’infermiera
Il film, dal titolo originale “Heldin” – ovvero eroina, donna eroica – usa proprio quel termine tanto osteggiato dagli stessi infermieri per ironizzare sulla visione angelica e deumanizzata che pubblico e pazienti hanno spesso di noi.
È un modo per restituire a Floria, la protagonista interpretata da Leonie Benesch (appena tornata sullo schermo dopo il successo di “La Sala Professori”), una dimensione più umana, a tratti ironica, persino dispettosa verso la retorica dell’Eroe.
Una dimensione difficile, certo. Ma almeno reale.
Perché Floria è un’infermiera. Non un angelo, non un simbolo. È una persona. E tanto basta per cercare di fare bene il proprio lavoro, anche quando tutto intorno sembra congiurare per trasformare ogni turno in un inferno.
Medici invisibili, parenti indisponenti, pazienti impazienti, richieste continue e priorità che cambiano di minuto in minuto.
Il film promette un realismo difficile da immaginare – soprattutto per chi non lavora in sanità – se confrontato con le produzioni televisive recenti e con le narrazioni più diffuse sugli ospedali e su cosa significhi lavorarci dentro.
Abituato ai medical drama americani (maledetto Grey’s Anatomy!), lo spettatore medio è convinto che siano i medici a gestire ogni aspetto del sistema sanitario.
Salvo poi accorgersi, spesso troppo tardi, che nella realtà le cose non stanno così.
Che vedere un medico è quasi un sacro privilegio. E che, per qualsiasi cosa – da un ringraziamento per un piccolo favore, alle costanti microaggressioni emotive – c’è sempre un bersaglio pronto a incassare: un’infermiera, che di solito risponde il prima possibile al suono di un campanello accanto al letto.
Ogni gesto è ben congegnato, frutto di un addestramento accurato dell’attrice protagonista, che restituisce con precisione il linguaggio del corpo di chi lavora in reparto. Ogni movimento, ogni dettaglio è studiato e preparato per rendere credibile la vita in corsia.
E sono proprio quei piccoli – ma enormi – dettagli a fare la differenza tra un film mediocre e “L’Ultimo Turno” di Petra Volpe.

“L’ultimo turno”: uno specchio della professione
A questo punto, un infermiere potrebbe chiedersi: “Ma se è esattamente quello che vivo tutti i giorni, perché mai, nel mio tempo libero – che dovrebbe essere una tregua dalle fatiche del lavoro – dovrei andare a vedere una collega che affronta le stesse difficoltà?”
Per lo stesso motivo per cui ogni mattina ci guardiamo allo specchio: per capire chi siamo, per ricordarci cosa facciamo, per vederci rispecchiati da fuori.
E, come ogni specchio permette: riflettere per diventare più consapevoli.
Il film “L’Ultimo Turno” è, a tutti gli effetti, uno specchio fedele della professione infermieristica. Permette a chiunque di immedesimarsi in Floria: non solo a un pubblico estraneo che, si spera, uscirà dalla sala con una consapevolezza più lucida delle sfide quotidiane affrontate dagli infermieri, ma anche agli infermieri stessi.
Attraverso le richieste che si accumulano e le emergenze che si intrecciano – un’ipoglicemia, un arresto cardiaco, una reazione allergica, un paziente non compliante e oppositivo, il giro terapie perennemente in ritardo, e molto altro – emerge con chiarezza quanto sia enorme il contributo che questa professione offre, ogni giorno, alla società.
Floria è un’infermiera che ce la mette tutta. Può perdere la calma, può lasciar cadere briciole di compassione lungo i corridoi del reparto, tra una corsa e l’altra, tra una richiesta assurda e un paziente ingrato, scorbutico, antipatico.
Ma riesce sempre a recuperarla, tutta. A ogni cambio di paradigma, a ogni breccia che si apre nella dimensione umana dei nostri pazienti: fragili, stanchi, spaventati. Come tutti noi, del resto. Infermieri compresi.
E provare a offrire una parola di conforto, non come “angeli”, ma semplicemente come esseri umani. Essere umani che cercano, ogni giorno, di fare bene il proprio lavoro.

I dettagli che fanno la differenza
Parlavamo di dettagli. Ebbene, la regista e tutto il suo team hanno il merito di essersi avvalsi della consulenza di un’infermiera, fondamentale per rendere credibili scenografia, gesti, interazioni e dialoghi.
Sono proprio quelle minuzie, quasi invisibili agli occhi di chi non lavora in sanità, a fare davvero la differenza a quanto visto di recente nel panorama cinematografico.
Un turno notturno si trasforma così in un’esperienza di tensione continua, che esplode in un paio di climax (niente spoiler, promesso!) forse un po’ romanzati, ma efficaci nel chiudere e sollevare il film a qualcosa di più di una semplice rappresentazione.
Nessuna lezione morale, solo qualcosa da portarsi via: qualcosa di buono, e allo stesso tempo di terribile, nella propria vita.
Perché l’esperienza del dolore, della paura e della sofferenza non è solo di chi viene assistito. È un fantasma che attraversa tutti: pazienti e infermieri.
E, quando capita, anche tra medici. Anche se non lo ammetteranno mai!

Intervista alla regista Petra Biondina Volpe
Il film è stato accolto con entusiasmo sia dalla critica che dal pubblico al Festival Internazionale del Cinema di Berlino.
Su IMDb.com, sito di riferimento per le recensioni cinematografiche, ha ottenuto un punteggio di 7.9, piazzandosi accanto a veri e propri capolavori del cinema.
Abbiamo avuto la possibilità di visionarlo in anteprima grazie alla disponibilità della casa di produzione e all’ufficio stampa di BIM, la società che cura la distribuzione italiana del film.
Ma non solo. Abbiamo avuto anche l’immenso piacere di intervistare Petra Biondina Volpe, regista internazionale de “L’Ultimo Turno”.

Salve Petra.
Prima di tutto, grazie. Grazie per aver scelto di raccontare la dimensione professionale dell’infermieristica con così tanta cura e verità.
Grazie per aver permesso allo spettatore di entrare, anche solo per un’ora e mezza, nelle sensazioni che migliaia di infermiere e infermieri vivono ogni giorno.
E per aver contribuito, con questo film, a sensibilizzare l’opinione pubblica su una realtà troppo spesso ignorata.
Dietro questo film c’è un lungo lavoro di preparazione. Faccia i miei complimenti a Leonie Benesch: è stata così realistica e intensa che nessun infermiere potrebbe dire il contrario. Lei è molto sensibile alle questioni infermieristiche, ma sono curioso: in che modo questo duro lavoro ha cambiato la visione del cast e della troupe?
Grazie per i complimenti, li trasmetterò volentieri a Leonie. Volevamo davvero onorare la complessità di questo lavoro, quindi era importante essere molto precisi.
Credo che tutti gli attori e la troupe siano usciti da questa esperienza con ancora più rispetto e ammirazione per il lavoro che viene svolto ogni giorno in migliaia di ospedali in tutto il mondo.
L’assistenza infermieristica è molto spesso data per scontata. L’80% degli infermieri sono donne, ed è sintomatico che questo lavoro non riceva l’alto valore che in realtà dovrebbe avere.
Durante le riprese, qual è stata la scena più difficile da dirigere e perché?
Volevamo creare un film che fosse percepito come un’esperienza fisica, così che il pubblico potesse sentire, anche nel corpo, cosa significhi affrontare il turno di Floria e provare stanchezza alla fine.
Il film dura solo 90 minuti, ma mostriamo un turno di 10 ore, quindi è stata una sfida creare questa sensazione di continuità. Volevamo che risultasse reale e autentico e, allo stesso tempo, che fosse narrato in modo molto preciso e con una drammaturgia serrata.
All’inizio del film ci sono alcuni piani sequenza non montati, che hanno richiesto molte prove e una coreografia accurata. Il tempismo degli attori e della macchina da presa ha richiesto una grande preparazione.
In altre interviste lei ha detto che i lavori di cura, come quello infermieristico, sono sottovalutati a causa della visione patriarcale della società. Anche noi infermieri abbiamo notato che persino il mercato libero resiste ad aumentare gli stipendi, nonostante la carenza di professionisti. Oltre al suo film, cos’altro possiamo fare per dare più valore a questi ruoli?
Credo che sia necessario un cambiamento radicale nel modo in cui gli infermieri e il loro lavoro vengono percepiti. Gli infermieri non sono solo assistenti della medicina, sono il motore dell’assistenza sanitaria.
Non voglio sminuire l’importanza dei medici, ma la cura effettiva del paziente è nelle mani degli infermieri. Essi portano un’enorme responsabilità e dovrebbero essere pagati e rispettati di conseguenza.
Garantire loro le migliori condizioni di lavoro non è solo nel loro interesse, ma anche in quello dei pazienti. E tutti noi siamo potenziali pazienti.
Quale reazione del pubblico le farebbe sentire che il messaggio è arrivato?
Spero, innanzitutto, che le persone si comportino meglio come pazienti. C’è sempre più violenza contro gli infermieri. La gente deve capire che, se deve aspettare che un infermiere entri in camera, si tratta di un problema sistemico e non di colpa dell’infermiere.
Gli infermieri non dovrebbero avere paura di andare a lavorare, dovrebbero essere trattati con rispetto e gratitudine. E poi spero che, quando lotteranno per migliori condizioni di lavoro e andranno in sciopero, scenderemo in piazza con loro per sostenerli.
Mostrando quanto sia dura la professione infermieristica, non c’è il rischio di scoraggiare anche quei pochi giovani che magari avrebbero voluto intraprenderla?
In realtà il film ha avuto l’effetto opposto. Molti studenti di infermieristica sono venuti a vederlo e li ha fatti sentire orgogliosi, perché il film mostra la complessità e la bellezza di questo lavoro.
C’è un lato profondamente umano nell’assistenza infermieristica e lo abbiamo mostrato anche nel film.
Ha già in mente un nuovo progetto o si godrà semplicemente il suo meritato successo di critica e pubblico?
Ho già girato un altro film quest’anno e lo stiamo montando in questo momento. Parla della demenza in un carcere maschile e affronta i temi della colpa, del perdono e della redenzione.
Credo che, nel mondo in cui viviamo, sia importante ricordare ciò che ci unisce come esseri umani e ciò che ci rende tali: la capacità di provare compassione.
Grazie Petra per il tempo che ci ha dedicato e per tutto il duro lavoro che ha svolto per le infermiere e gli infermieri di tutto il mondo.
Le auguriamo tutto il successo che merita!
È incoraggiante, per tutti i professionisti, sapere che da qualche parte c’è qualcuno che è riuscito a vederci davvero per quello che siamo: non eroi (“Heldin”, il titolo originale del film), non angeli, ma uomini e donne che cercano di fare qualcosa di buono. Nonostante tutto.
Ricordiamo che il film esce oggi in anteprima nazionale e il 20 agosto in tutti i migliori cinema. Che siate infermieri o meno, andarlo a vedere è un’esperienza importante per la vita di tutti noi.
Guarda il trailer e ottieni maggiori anche informazioni su: mymovies.it/film/2025/lultimo-turno/
Autore: Dario Tobruk (seguimi anche su Linkedin – Facebook – Instagram – Threads)
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