“Una paziente mi donò ceste di verdura”: le testimonianze degli infermieri nella campagna per migliorare l’attrattività della professione

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La nuova campagna voluta dall’Opi di Grosseto per provare a migliorare l’attrattività della professione infermieristica (VEDI articolo “Ho scelto di essere infermiere”, ecco lo slogan dell’Opi per migliorare l’attrattività della professione) sta entrando nel vivo, con una serie di testimonianze, pubblicate dai media locali, volte a convincere i giovani a iscriversi al CdL in oggetto.


Su Maremma Oggi, in un articolo dal titolo assai accattivante che vuole raccontare ai cittadini le emozioni di un “mestiere” (VEDI), il presidente dell’Ordine Nicola Draoli ha voluto raccontare di questa sua scelta e di un paio di episodi che hanno di sicuro segnato il suo percorso professionale.


«Svolsi il servizio civile facendo volontariato in strutture come il Ceis, la Caritas, L’Altra Città – spiega Draoli – e qui vidi da vicino come lavoravano gli infermieri che si occupavano delle persone accolte in comunità per tossicodipendenti. Fui colpito subito da una caratteristica: la combinazione degli elementi di relazione con il paziente e quelli pratici. La nostra professione mette insieme il gesto tecnico e quello umanistico».


Draoli ha poi raccontato di una paziente, durante un’emergenza: «La soccorremmo e le feci tutte le manovre salvavita, la defibrillai. Quando fu dimessa volle sapere il mio nome. Mi cominciarono ad arrivare ceste di verdura in dono da parte sua: ero in imbarazzo e la chiamai per prendere un caffè, per spiegarle che non avrebbe dovuto».


Ma la signora non voleva ringraziare l’infermiere per averle salvato la vita: «Mi disse che quello era il mio lavoro, che era il minimo che l’avessi fatto. Voleva ringraziarmi perché durante il trasferimento nottano dal reparto intensivo a quello normale, avevo aspettato che si preparasse, l’avevo svegliata dolcemente, senza farle subire lo stress che spesso si prova. Avevo preservato la sua dignità, di questo mi voleva ringraziare».


A volte, purtroppo, per il paziente non c’è niente da fare. E anche tutto ciò, inevitabilmente, segna e fa crescere il professionista: «Era un uomo di 45 anni, dovemmo rianimarlo. Si riprese giusto un momento, aprì gli occhi e mi disse: “Non mi fare morire”. Mi sono sempre chiesto perché avesse scelto me. Di lui ricordo tutto. Via via mi sono accorto che si diventa il punto focale delle persone che ci troviamo di fronte, delle quali ci prendiamo cura».

Siamo davvero sicuri che raccontare ai cittadini di “mestiere”, volontariato, gesti umanistici, ceste di verdura, risvegli dolci e morti che ti segnano, possa in qualche modo convincere i giovani a intraprendere un percorso che rimane avaro di soddisfazioni economiche, di riconoscimento sociale e di sbocchi professionali accettabili?

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Alessio Biondino

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