I relatori aprono l’anno accademico: «L’infermieristica è una vocazione».  Ribatte Nursind: «Non siamo dei caritatevoli tuttofare»

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Qualche giorno fa, presso il campus universitario Rita Levi Montalcini di Asti, si è tenuta l’apertura ufficiale dell’Anno Accademico 2023/2024 per le nuove matricole del Corso di Infermieristica dell’Università di Torino.

Alla cerimonia hanno partecipato il direttore generale Asl At (Francesco Arena), i dirigenti dell’azienda sanitaria di Asti (Cristina Chialvi e Katia Moffa), la presidente del corso di laurea Claudia Penna, la presidente dell’ordine infermieri Stefania Calcari, la coordinatrice del corso di infermieristica Wilma Gentile, docenti e tutor dell’ateneo subalpino e il presidente del consorzio Uni Astiss (Mario Sacco).


Ed è così che i relatori, in un periodo dove sembra proprio che l’infermieristica italiana stia andando verso il baratro, hanno deciso di presentare la “professione”(VEDI La Voce di Asti): «La professione infermieristica è una vocazione, è emerso, e pertanto alle nuove matricole diciamo di credere nel cammino che hanno intrapreso e di affidarsi, se dovessero insorgere dubbi, ai consigli del corpo docente e dei tutor particolarmente qualificati. La sede universitaria, con i suoi moderni laboratori tecnologici, può offrire a chi studia qui una formazione avanzata di alto livello».

Il sindacato di categoria Nursind non ci sta e, tramite un comunicato di Gabriele Montana (VEDI La Voce di Asti), mette qualche puntino sulle “i”: «La nostra professione non è una vocazione. Non lo è in nessun modo, a nessun livello e da nessun punto di vista.


La professione infermieristica è, appunto, una professione e, in quanto tale, trova il proprio motore e la propria definizione nella formazione, nella competenza, nel saper fare, quindi si realizza nella capacità di applicare il proprio bagaglio conoscitivo ed esperienziale nel rispetto del codice deontologico che, da solo, offre tutto quello di cui l’infermiere necessita per applicare virtuosamente il proprio sapere.

Qualcuno, ancora oggi, ritiene evidentemente che per mantenere l’infermiere legato alla propria deontologia questo strumento non basti, così si arroga il diritto di affiancare a questo ruolo concetti come ‘umiltà’, ‘forza’, ‘compassione’ e, appunto, vocazione’, impedendogli quindi (di fatto) di imporsi come professionista e consegnarlo ad un’immagine popolare del benevolo servitore, del caritatevole tuttofare e del sorridente garzone. Ma la nostra non è una vocazione è consapevolezza.


Attualmente, quantomeno nel nostro Paese, la professione infermieristica è diventata scarsamente appetibile, basti pensare al numero di candidati presentatosi al test di ingresso per accedere alla facoltà dedicata (inferiore al numero di posti disponibili), e a quanti professionisti dell’assistenza decidono di emigrare all’estero dove godono di maggior riconoscenza e stipendi superiori. Ricordiamo infatti che lo stipendio medio di un infermiere italiano si colloca al di sotto della media europea, cioè è inferiore a quanto percepito mediamente dagli stessi colleghi che operano in altri Paesi dell’Ue.

Forse il fatto di chiamarci missionari renderà più appetibile la professione? Questi signori che ci appellano tali non reputandoci, quindi, professionisti, sono forse convinti di affollare in questo modo le aule della facoltà di infermieristica? È così che vogliono stimolare i giovani, farli avvicinare alla professione e renderli consapevoli di quel che comporta davvero essere un infermiere?


Come si può pretendere un maggior rispetto da parte dell’utenza, una maggior riconoscenza per le nostre competenze/conoscenze frutto, non dimentichiamolo, di un bagaglio culturale che comporta tre anni di formazione universitaria e un costante aggiornamento? Come possiamo avere maggiore rispetto da parte dell’utenza, ma anche da parte degli organi ufficiali che si occupano (da dietro una scrivania) di decidere quanto merita di guadagnare un infermiere?

Sicuramente troppo poco se mettiamo sull’ago della bilancia le responsabilità dietro questa professione. Ma, in fondo, se ci vogliono missionari, è già tanto che non ci chiedano di lavorare gratis. Dispiace poi, ancor di più, apprendere che certe affermazioni siano condivise da chi ha la responsabilità, l’onere e l’onore di occuparsi della formazione dei futuri infermieri, ovvero il presidente della facoltà astigiana e da chi ha il compito e il dovere, invece, di tutelare gli esercenti la professione, ovvero l’ordine professionale locale.


A tal proposito, auspichiamo in una rettifica da parte loro e in una disamina competente sugli appellativi: ‘vocazione e professionisti’. Ancora una volta, si afferma da parte nostra, l’estrema convinzione che di infermieristica sarebbe opportuno che ne parlasse prevalentemente chi davvero la vive in prima persona da protagonista tutti i giorni, e non chi la osserva da tempo, ormai, o da sempre, da dietro una scrivania». 

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Alessio Biondino

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