Che la salute psico-fisica degli infermieri italiani sia troppo spesso minata da super-lavoro, sfruttamento, demansionamento, turni massacranti e che poco si conciliano con una vita “normale”, è cosa risaputa.
La perpetua carenza di personale, poi, evidenziata e aggravata dalla pandemia, non ha affatto migliorato le cose. Anzi, ha dato vita a una “questione infermieristica” (VEDI) senza precedenti e che sta causando non pochi problemi al nostro SSN e alle aziende private.
Ma al di là di tutti i disagi di cui la categoria è pregna… Alla salute degli infermieri, soggetti a tutto questo, chi ci pensa? Quanti colleghi, a causa del troppo lavoro e dell’estrema irregolarità della propria vita, fatta di ritmi circadiani perennemente stravolti e di fatica, hanno subito conseguenze fisiche a causa della loro attività professionale? Quanti sono morti per cause cardiovascolari strettamente connesse allo stress-lavoro correlato?
Difficile dirlo. Ma gli studi scientifici prodotti nel tempo sono inequivocabili: di sicuro vi è un legame tra l’insostenibilità dei ritmi lavorativi ai quali i lavoratori moderni sono sottoposti e lo sviluppo di patologie cardiovascolari.
E, anche se non è propriamente semplice, in caso di infarto il lavoratore può provare che l’accidente sia stato causato dal troppo lavoro e quindi da un abuso commesso dal datore.
Per dimostrare ciò, però, è necessario ricollegare in qualche modo l’evento dannoso al fatto illecito che lo ha causato, ovvero la condotta illecita aziendale che ha imposto, preteso o anche soltanto tollerato turni di lavoro o prestazioni lavorative non propriamente rientranti nella legalità; attività che, nel tempo, ha compromesso la salute del lavoratore.
A dirlo è una sentenza della Suprema Corte di Cassazione (n. 34968 del 28.11.2022, raccontata da La Legge Per Tutti), riguardante un dipendente della pubblica amministrazione colpito da infarto che si era visto respingere la domanda risarcitoria nei primi due gradi di giudizio.
Gli Ermellini hanno infatti analizzato la questione da una prospettiva diversa: ricordando che, secondo l’art. 2087 del Codice Civile, il datore è obbligato ad «adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisicae la personalità morale del lavoratore», la Suprema Corte ha affermato che il superlavoro ha luogo quando c’è una prestazione lavorativa «eccedente la tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi».
È in questi casi che si verifica l’illecito del datore di lavoro, reo di non preservare e garantire adeguatamente la salute dei suoi dipendenti. Trattasi di un vero e proprio inadempimento contrattuale, che perciò rende legittimo il risarcimento al lavoratore colpito da infarto.
Quest’ultimo, però, alla domanda risarcitoria deve «allegare rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio (ad es. modalità qualitative improprie, per ritmi o quantità di produzione insostenibili etc., o secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa o comunque in misura irragionevole».
Come fare è spiegato nella sentenza: Il lavoratore deve dimostrare di aver svolto prestazioni lavorative che sono andate oltre i limiti della «normale tollerabilità» e quello che in giurisprudenza è definito «nesso di causalità», ovvero la correlazione tra l’evento dannoso e il fattore che lo ha provocato. Cosa non semplice, ma possibile.
Ovviamente il datore di lavoro può opporsi, provando a dimostrare che le prestazioni lavorative si sono svolte «secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali, congrue e tollerabili per l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore». Cosa, anche questa, non semplicissima di fronte a prove evidenti.