L’ennesima testimonianza di una categoria in fuga arriva da Padova: Stefania, infermiera 50enne di Este, ha deciso di dare le dimissioni dal Pronto Soccorso dell’Ospedale di Schiavonia. E i motivi sono sempre gli stessi: stanchezza, demoralizzazione, burnout e stipendio da fame.
La professionista ha raccontato così i motivi di questa sua drastica scelta (VEDI Il Corriere del Veneto): «Non ne posso più, non sono disposta a continuare a lavorare con questi ritmi. Ho dato all’Usl Euganea i due mesi di preavviso, sarò in servizio fino al 15 novembre, quindi smaltirò le ferie arretrate e pagate fino al 31 marzo e poi deciderò cosa fare».
Una decisione praticamente disperata: «Abbandono il servizio pubblico con dolore– spiega l’infermiera –, ci lascio il cuore. So che è una scelta un po’ azzardata a 50 anni ma i carichi di lavoro sono aumentati in modo esponenziale, così come i codici rossi, legati all’invecchiamento della popolazione e molto complessi da gestire. Per contro il personale continua a ridursi, anche per le tante dimissioni negli anni».
E lavorare in pronto soccorso è diventato un incubo: «Al Pronto Soccorso di Schiavonia siamo gli stessi del 2014: 54, invece dei 64 stabiliti come contingenti minimi. Io lavoro al Triage e se, dalle 21 alle 3 del mattino, qualche rara volta riesco a bere un caffè è già molto, gli ingressi sono continui. Come se non bastasse siamo vittime di una escalation di aggressioni fisiche e verbali: utenti e parenti ci offendono, dicono che non facciamo niente, ci minacciano, ci insultano a causa delle lunghe attese. Alcuni colleghi sono stati presi per il collo, a calci, a pugni. E non c’è tutela».
Nel senso che«dalle 22 alle 5 l’intero ospedale può contare su un’unica guardia giurata, che interviene a chiamata. Di segnalazioni io stessa ne ho presentate tante, sono iscritta alla Cgil, ma non cambia niente. E se decidi di denunciare, ti devi pagare l’avvocato, perché l’azienda non ti copre con il suo ufficio legale, perciò la maggioranza delle vittime lascia perdere».
Sulla sua carriera da infermiera di pronto soccorso, Stefania ricorda: «Sono stati anni intensi, di soddisfazione, gratificazione, ma oggi la situazione è cambiata, è logorante, non riesco più a sopportare tutto questo, ne va della qualità della mia vita».
E la collega non è la sola che ha scelto di andarsene: «Un’altra collega ha dato le dimissioni adesso e altri, trentenni, l’hanno già fatto da tempo e non se ne sono pentiti, non sono mai tornati indietro, così come tre medici. Tutti hanno aperto la partita Iva, sono liberi professionisti, prestano servizio anche per le cooperative. Alcuni sono rimasti nell’emergenza-urgenza con il Suem, ma con orari che scelgono loro e stipendi più gratificanti, altri hanno optato per le case di riposo. Io valuterò, ma la mia non è una scelta per denaro. Lo stipendio medio di un infermiere è di 1.500 euro, io con le indennità del Pronto Soccorso e l’anzianità arrivo a 2.000-2.100».
Sulla recente pandemia, periodo in cui gli infermieri venivano acclamati come eroi, Stefania non dimentica: «La gente ci faceva sentire l’importanza della nostra professione, riconosceva l’impegno. Dopo dieci ore bardati con la tuta protettiva andare in spogliatoio e trovare l’ingresso pieno di fiori, oppure dolci, pasticcini, biglietti, ti faceva commuovere. Era la carica per andare avanti, per dimenticare la paura di portare il Covid a casa, il dispiacere di dover mangiare e dormire in altre stanze per non contagiare i tuoi cari, il disagio di non poter dare il bacio della buonanotte ai figli. Eppure nessuno di noi si è messo in malattia per tutelarsi».
Ma adesso tutti, dai cittadini ai politici, sembrano aver dimenticato: «Sì e noi da eroi e angeli siamo diventati untori e assassini».
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