La strage di Ardea, nei pressi di Roma, ha sconvolto tutta Italia. A queste latitudini, infatti, non è affatto facile che un soggetto con problemi psichiatrici abbia a disposizione un’arma da fuoco, ma… Stavolta è successo proprio questo. E a rimetterci la vita sono state tre persone innocenti, di cui due bambini.
Il triplice omicidio
Un uomo di 34 anni con problemi psichici, in un giorno come tanti ha imbracciato una pistola (appartenuta a suo padre morto tempo prima, che lavorava come guardia giurata) e ha fatto fuoco su due fratellini di 5 e 10 anni che stavano giocando in un parco, a pochi metri da casa. Qualche istante dopo, ha puntato l’arma anche contro un signore di 76 anni che passava per caso in bicicletta ed ha ferito a morte anche lui.
Dopo aver sparato e ucciso, l’assalitore si è asserragliato nella propria abitazione per diverse ore. Ma a seguito di diversi contatti infruttuosi tra questo e i Carabinieri che stazionavano fuori dall’edificio, sono dovuti intervenire i reparti speciali, che hanno fatto irruzione e che lo hanno trovato senza vita: si era da poco suicidato.
‘Bombe che camminano’
Come sottolineato ai microfoni di Radio24 dall’avvocato della famiglia dei due bimbi uccisi, quella di Ardea è stata “Un’immane tragedia il cui punto fondamentale, ora, è capire se potesse essere evitata.
Bisogna verificare, attraverso l’attività investigativa, se ci sono state delle falle nell’abbandonare a se stesse famiglie con soggetti che hanno problemi psichiatrici e quindi bisogna evitare che una tragedia simile possa verificarsi di nuovo. Spero che la Procura farà luce, anche per i risvolti sociali che questa vicenda ha”.
Di sicuro molte famiglie ci si sentono, abbandonate a se stesse. Tanto che il papà di un ragazzo di 15 anni disabile mentale, intervenuto nel corso della trasmissione radiofonica, ha denunciato che “Le bombe che camminano sono centinaia in Italia, si aspetta soltanto il prossimo morto per parlarne”.
‘Centri di salute mentale? Dispensano solo psicofarmaci’
Vincenzo, questo il nome del papà palermitano che ha parlato senza mezzi termini di ‘allarme bomba’, se l’è presa coi Centri di Salute Mentale: “Sono il fulcro della gestione della qualità di vita delle persone come mio figlio, ma ormai sono diventati solo dispensori di psicofarmaci. Le visite durano in media tra i 5 e i 7 minuti, non si riescono a gestire i tempi del dialogo, tutto finisce con l’assegnazione dei farmaci. Non c’è mai una telefonata del centro alle famiglie per sapere come va, che fa la persona in cura, come passa la giornata”.
La salute mentale in Italia
Come dichiarato (sempre a Radio24) da Fabrizio Starace, presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica (Siep): “Ogni anno sono circa 650.000 i ricorsi al pronto soccorso per motivi psichiatrici. È evidente che sarebbe impossibile immaginare un numero equivalente di persone da sottoporre a stretta vigilanza per eventuali comportamenti violenti, ma di certo c’è da interrogarsi sulle connessioni che possono esistere tra questo primo presidio di intervento sanitario e i percorsi attivati successivamente”.
Dati inquietanti, modificati chissà quanto e come dalla pandemia globale che ha sconvolto le nostre vite, che ci ha costretti a isolamenti forzati, lockdown, quarantene e a limitare il più possibile i contatti umani.
Disuguaglianze territoriali e malintese percezioni
In riferimento alla denuncia del papà siciliano di cui sopra, Starace ha spiegato che “Le disuguaglianze territoriali nel nostro Paese sono marcatissime e addirittura intollerabili specie quando si considera che l’assistenza psichiatrica non è come un intervento chirurgico del quale una persona può fruire spostandosi da una regione all’altra e andando in un centro di eccellenza. E’ un’assistenza che si fonda nella comunità di riferimento, volta al reinserimento, alla reinclusione”.
Per il presidente Siep in Italia vi è “una malintesa percezione della psichiatria che continua a essere considerata in termini prestazionali, ossia di visita ambulatoriale, elicitazione di sintomi ed eventuale somministrazione di uno psicofarmaco”.
Tanto che “anche dopo un trattamento sanitario obbligatorio (tso) non c’è continuità della cura; solo il 30% delle perone a cui viene fatto un tso viene visto nei 14 giorni successivi alla dimissione di un ricovero. Probabilmente per problemi di dotazione e organizzazione nei vari territori”.
‘C’è bisogno di tecnologia umana’
La soluzione? Mettere in campo gli strumenti che c’erano già prima del Pnrr: “Centri di Salute Mentale diffusi su tutto il territorio, aperti h24 in modo da poter intercettare queste forme di disagio in qualsiasi momento, con equipe multidisciplinari proiettate verso la comunità, verso l’aiuto alle famiglie.”
Già, perché nella salute mentale “non abbiamo bisogno di tecnologie sofisticate ma abbiamo bisogno di tecnologia umana, di persone competenti e motivate che svolgano questo lavoro. Dal disturbo mentale ci si riprende a patto che si intervenga precocemente e in maniera appropriata, secondo i percorsi di cura definiti dal Ministero e con continuità nel tempo”.
Autore: Alessio Biondino
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento