La Cassazione conferma che in caso di errore la responsabilità ricade su tutta l’équipe professionale.
La Corte di Appello di Salerno ha confermato la sentenza emessa dal tribunale di I grado dello stesso capoluogo che aveva condannato, per il reato di cui agli artt. 41, 110, 113, 589 cod. pen., gli imputati per i reati loro ascritti per aver, mediante condotte indipendenti e/o cooperazione colposa, cagionato la morte di un paziente dovuta a reazione emolitica acuta a seguito di una trasfusione di sangue di emazie concentrate non emocompatibili con il gruppo sanguigno del ricevente.
Cose da sapere in caso di procedura disciplinare:
Agli imputati è stata contestata la colpa generica consistente in negligenza, imprudenza e imperizia, nonché la colpa specifica consistente nella violazione delle linee guida raccomandate dal Ministero della Salute ai fini della prevenzione delle reazioni trasfusionali da incompatibilità AB0, adottate dalla stessa azienda ospedaliera datrice di lavoro degli imputati nell’ambito dello specifico protocollo.
In particolare l’imputato X, in qualità di tecnico addetto al centro trasfusionale, aveva consegnato all’infermiere del reparto di Ortopedia le sacche destinate ad altro paziente, con gruppo sanguigno incompatibile con quello della vittima; il medico del reparto di Ortopedia non aveva verificato che il gruppo sanguigno del soggetto ricevente corrispondesse a quello della sacca consegnata; lo stesso medico aveva perpetrato l’errore del tecnico del centro trasfusionale disponendo la trasfusione di una ulteriore sacca; il medico anestesista rianimatore, intervenuto per una consulenza, non aveva approfondito le cause della crisi ipotensiva per la quale era stato richiesto il suo intervento.
La Corte territoriale ha affermato che: il primo errore, dal punto di vista cronologico era da addebitarsi al tecnico del centro trasfusionale che doveva sincerarsi della reale corrispondenza del nome con il gruppo sanguigno, anche attraverso i codici a barre identificativi delle sacche, riportati anche sulla matrice della richiesta stessa; si dovevano per altro condividere le conclusioni della CTU, alle quali aveva già dato seguito il giudice di prime cure, a proposito della posizione di garanzia assunta dai medici del reparto di ortopedia; l’ortopedico aveva ordinato la somministrazione della sacca di sangue A+ senza verificare la corrispondenza tra il gruppo del paziente e il gruppo sanguigno indicato sulla sacca, delegando all’infermiere il controllo sull’attività particolarmente rischiosa, senza operare alcuna verifica diretta nel corso della somministrazione; l’ortopedico non aveva individuato i primi sintomi manifestati dal paziente appena pochi minuti dopo la somministrazione della prima sacca di emazie e aveva omesso di porre una diagnosi differenziale e di controllare la compatibilità della sacca con il gruppo sanguigno del paziente, tralasciando di sospendere la somministrazione e anzi ordinando un’altra sacca di sangue; l’anestesista rianimatore, consultato dall’ortopedico per una crisi ipotensiva del paziente poi deceduto, aveva omesso di verificare e di ricercare la causa dell’ipotensione ma si era limitato a recepire le informazioni trasmessegli dall’ortopedico, pur avendo in qualità di rianimatore competenze specifiche anche sul piano trasfusionale.
Ricorre in Cassazione il tecnico del centro trasfusionale lamentando la sua irresponsabilità poiché si era solo limitato a strisciare la pistola collegata al computer per la verifica del codice a barre apposto sulle sacche, laddove spettava invece all’infermiere che riceveva la sacca controllare la corrispondenza con i dati relativi al paziente.
Lamenta inoltre erronea applicazione dell’art. 41 cod. pen. ritenendo che la trasfusione è atto medico regolamentato dalle procedure operative specifiche che medico e infermiere sono tenuti a seguire in base alle linee guida individuate con decreto dal Ministero della Salute del 3 marzo 2005 “raccomandazioni sulla prevenzione della reazione trasfusionale da incompatibilità AB0”; secondo il ricorrente la corte di Appello ha omesso di valutare che l’evento avrebbe potuto essere evitato attraverso il semplice raffronto tra i dati a disposizione dei sanitari.
Ricorre altresì in Cassazione l’anestesista rianimatore ritenendo che i colleghi ortopedici successivamente intervenuti, con la loro condotta, abbiano irrimediabilmente sacrificato la possibilità di innescare la reversione del processo emolitico con una adeguata terapia di globuli rossi; l’errore doveva infatti considerarsi scarsamente offensivo in ragione della bassissima quantità di emazie trasfuse, tant’è vero che dopo la sospensione della prima infusione il paziente si era ripreso; il rischio è insorto a seguito della decisione degli ortopedici di continuare la terapia trasfusionale che doveva considerarsi come assolutamente eccentrica rispetto al rischio originario.
Ricorre in Cassazione anche l’ortopedico, deducendo che la Corte di Appello avrebbe omesso il motivo di appello, con il quale si sosteneva che la prova che all’atto dell’intervento del ricorrente al paziente erano state già somministrate un quantitativo di emazie superiore a sette volte quello ritenuto letale dal perito, trascurando il controllo controfattuale del ruolo salvifico che avrebbe potuto avere la condotta omessa dell’altro collega, inoltre il ricorrente lamenta che la Corte di Appello abbia ribaltato il giudizio espresso dal perito a proposito della scelta dell’imputato di praticare cortisone e per aver replicato alle doglianze concernenti il principio di affidamento con un incongruo richiamo alla posizione dell’altro imputato.
La motivazione risulterebbe contraddittoria laddove, in merito alle doglianze concernerti l’affidamento sull’operato del collega anestesista, ha escluso trattasi di attività di gruppo, ma poi successivamente ha ricondotto la condotta dell’anestesista nel paradigma della cooperazione multidisciplinare.
La Suprema Corte analizzando i motivi del ricorso deduce quanto segue non prima di aver fatto delle premesse: una concerne la diretta e incontestabile efficienza causale rispetto all’evento morte, che si deve attribuire all’errore nella trasfusione di sangue di gruppo incompatibile con quello del paziente; si tratta di un errore di gravità tale da essere stato considerato, in un caso in precedenza deciso dalla medesima Corte (Cass. 5, n.6870 del 27 gennaio 1976), dotato di “esclusiva forza propria nella determinazione dell’evento” anche rispetto a un precedente errore medico; l’altra premessa inerisce al rilievo per cui, nel caso di cause colpose indipendenti, chi lede un bene come la vita non può fare affidamento sull’intervento salvifico di terzi.
L’art. 41, primo comma cod. pen. infatti, determina che non può invocare il principio di affidamento l’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità.
Nel caso specifico, giova sottolineare come le condotte contestate agli imputati si inseriscano tutte nella medesima area di rischio, quanto alla consegna delle sacche errate quanto all’ordine di somministrarle, quanto all’omessa diagnosi differenziale.
È quindi del tutto inutile porre nel caso in esame la questione delle sopravvenute cause idonee da sole a determinare l’evento, laddove si osserva che il rischio riconducibile a ciascuna delle condotte degli odierni imputati non è mai nuovo, ma sempre il medesimo, evolutosi nei successivi passaggi verso l’evento in origine prevedibile. La consegna della sacca con gruppo incompatibile con quello del paziente ha innescato l’evento causale giunto al drammatico epilogo, senza che siano intervenuti fattori eziologici nuovi ed eccezionali idealmente separabili dalla causa iniziale.
Si rileva dunque la manifesta infondatezza e dunque l’inammissibilità del ricorso presentato dal tecnico del centro trasfusionale, il fatto illecito altrui non esclude in radice l’imputazione dell’evento del primo agente, che avrà luogo fino all’intervento del terzo in relazione all’intero concreto decorso causale dalla condotta iniziale dell’evento.
Ad analogo giudizio di inammissibilità per manifesta infondatezza, si giunge nel ricorso proposto dall’anestesista, la Suprema Corte specifica che: “la cooperazione tra sanitari, ancorché non svolta contestualmente, impone ad ogni sanitario oltre che il rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, l’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità e imprevedibilità” (Cass. Sez. 4, n. 30991 del 6 febbraio 2015).
I motivi di ricorso dei due ortopedici non sono manifestamente infondati. Va rilevato che il reato per il quale sono stati tratti in giudizio è estinto per prescrizione, trattandosi di reato commesso nel 2009.
In conclusione la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti dei 2 ortopedici perché il reato è prescritto, i relativi ricorsi degli altri imputati sono inammissibili.
Segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Sentenza interessante che mette in evidenza un dato importante, ossia che la responsabilità, nei casi in cui ci sia l’intervento di più professionalità e laddove non sia possibile valutare eventi imprevedibili ed eccezionali ai quali addebitare la responsabilità causale dell’evento occorso, rimane in capo a tutti coloro che hanno preso parte all’evento.
Nel caso di specie, molti sono stati gli errori commessi dai professionisti che hanno preso parte all’accaduto, ognuno di loro con la propria responsabilità per colpa dovuta a negligenza, imprudenza e imperizia.
In prima istanza il tecnico del centro trasfusionale che, nell’aver verificato la sacca poi consegnata al reparto di ortopedia non si è accorto dell’errata coincidenza del codice a barre con la richiesta pervenuta presso il medesimo centro; la responsabilità dell’infermiere e dell’ortopedico del reparto che hanno omesso il controllo incrociato della sacca con i dati del paziente e soprattutto con il gruppo sanguigno.
Non è dato sapere chi avesse trasfuso e innestato la sacca, la sentenza non lo specifica, ipotizzando che sia stata correttamente innestata dal medico, costui non si è trattenuto presso il paziente per verificare eventuali reazioni avverse come previsto dal protocollo del Ministero della Salute, ma ha delegato all’infermiere la responsabilità dell’attività di controllo, omettendo qualsivoglia verifica nel mentre si stava trasfondendo la prima sacca.
L’ortopedico aveva trascurato le condizioni cliniche manifestate pochi minuti dopo la somministrazione omettendo quindi anche di fare una diagnosi differenziale e di verificare la reale compatibilità della sacca di sangue con il gruppo del ricevente.
L’anestesista rianimatore, chiamato per accertarsi che il calo pressorio manifestato dal paziente non fosse correlabile alla somministrazione della prima sacca di sangue, omettendo di ricercare le reali cause di tale crisi pressoria, si era limitato a recepire le informazioni trasmessegli dall’ortopedico del reparto.
Gli ortopedici si sono salvati con la sopraggiunta prescrizione del reato avvenuta addirittura prima della pronuncia della corte di Appello, sono stati invece condannati alle spese di giudizio il tecnico e l’anestesista, dichiarandosi inammissibile il ricorso per Cassazione, confermando quindi le condanne per violazione degli artt. 41, 110, 113, 589 cod. pen. ossia per cooperazione colposa ed omicidio colposo.
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