Gestione e Trattamento delle infezioni da Clostridium difficile (ICD)

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Le infezioni da Clostridium difficile (Clostridium difficile infection – ICD) sono la principale causa di diarrea infettiva in ambito ospedaliero e in quelle strutture in cui si pratica assistenza sanitaria, in particolare strutture riabilitative e per anziani. 

Negli ultimi anni le infezioni da Clostridium difficile hanno avuto un’importante diffusione collocandosi tra le malattie infettive emergenti a livello mondiale. A tale andamento non si sottrae il nostro Paese dove il numero dei casi è in aumento anche in relazione a una maggiore sensibilità dei clinici e dei microbiologi a questa patologia e al miglioramento degli strumenti diagnostici disponibili.

Epidemiologia delle infezioni da Clostridium difficile

Clostridium difficile è un batterio bacillo gram-positivo anaerobio obbligato che nel 25% dei casi non risulta patogeno dato che la normale flora intestinale inibisce in vitro e in vivo la crescita del clostridio. La patogenesi discende dalla risposta dell’ospite alla produzione di tossina A (enterotossica) e di tossina B (enterotossica e citotossica) che si legano ai recettori intraluminali delle cellule epiteliali del colon. 

Il batterio è salito negli ultimi anni agli onori delle cronache come causa principale di diarrea associata all’utilizzo degli antibiotici, specialmente in ambito nosocomiale. I quadri clinici associati vanno da una lieve sindrome diarroica a forme gravissime (per esempio, megacolon tossico) anche fatali.

L’infezione da ICD è stata descritta per la prima volta in letteratura nella seconda metà degli anni Settanta e, benché importanti lavori siano stati condotti per definirne epidemiologia, diagnosi clinica e controllo dei focolai ospedalieri, continua ad essere un’importante – anche in termini di costi economici – infezione gastrointestinale associata alle procedure assistenziali.

Le percentuali di portatori di ICD nella popolazione

La percentuale dei portatori di infezioni da Clostridium difficile nella popolazione adulta sana è compresa tra il 5 e il 15%, ma può superare il 50% nei pazienti nei reparti di lungodegenza. Sebbene sia ritenuta un’infezione ospedaliera, i casi di CDI nella comunità e nei soggetti finora ritenuti non a rischio, quali giovani e donne in gravidanza, sono in aumento.

Secondo i dati ufficiali dell’OMS, nell’ultimo quinquennio si è osservato un incremento dei ricoveri per infezioni intestinali batteriche in molti paesi europei:

  • in Austria si è passati dallo 0.19 per 1000 abitanti del 2001 allo 0.24 del 2006, in Finlandia dallo 0.24 del 2002 allo 0.31 del 2006,
  • in Norvegia dallo 0.15 del 2002 allo 0.21 del 2005 e
  • in Gran Bretagna dallo 0.1 del 2000 allo 0.17 del 2005.

Di questi casi, una quota significativa è rappresentata dalle infezioni da Clostridium difficile: la prevalenza varia dallo 0 al 15% negli ospedali in assenza di focolai epidemici per arrivare a percentuali del 16-20% quando si verificano epidemie nosocomiali .

L’evoluzione dei dati epidemiologici dell’ICD

I dati dell’European Centre for Disease Prevention and Control mostrano un incremento della prevalenza di casi attribuibili a questo patogeno nosocomiale dallo 0.039% del 1999 allo 0.122% del 2007. I tassi di ICD in comunità sono bassi (7-12 casi/100000 abitanti/anno); tuttavia, in letteratura, sono sempre più numerose le segnalazioni di epidemie comunitarie.

Uno studio francese ha recentemente dimostrato che quasi il 20% dei casi di infezioni da Clostridium difficile avvenuti fra il 2000 e il 2004 non sono attribuibili a procedure nosocomiali ma si sviluppano autonomamente all’ambito comunitario. Tale dato non va dimenticato se si considera che, verosimilmente, non vengono diagnosticate tutte le infezioni intestinali insorte in pazienti che non presentano fattori di rischio tipici o che siano recentemente stati ricoverati.

In sintesi, l’incidenza e la severità sembrano essere in aumento in diversi Paesi; l’epidemiologia è rapidamente mutata negli ultimi 5 anni e, gradualmente, è divenuto evidente che il mondo sta affrontando un’epidemia di ICD associata a maggior severità e a maggiore refrattarietà alle terapie convenzionali.

Fattori di Infezione nelle ICD

ICD è tipicamente acquisito durante il ricovero in una struttura sanitaria, ma possono anche verificarsi delle manifestazioni endogene o acquisite in comunità.

I pazienti raramente vengono sottoposti a screening per ICD all’ingresso in ospedale e lo sviluppo di ICD appare solo dopo un periodo di ricovero: i portatori asintomatici possono divenire clinicamente sintomatici dopo esposizione a specifici fattori di rischio che portano all’eccessiva crescita del germe. Quando si verifica un’epidemia nosocomiale, la trasmissione avviene per via oro-fecale attraverso oggetti o personale ospedaliero o compagni di stanza contaminati da spore.

Fattori di rischio di ICD

fattori di rischio tradizionalmente implicati nell’acquisizione dell’infezione sono:

  • le condizioni dell’ospite (senilità, difetti del sistema immunitario, comorbidità),
  • l’aumentata esposizione alle spore di ICD (ricoveri prolungati, ambiente ospedaliero, compagni di stanza infetti o personale sanitario portatore di germi)
  • e fattori che alterano la normale flora microbica intestinale (antibiotici, antiacidi e altre procedure assistenziali).

Nel corso del 2018 sono state pubblicate due importanti Linee Guida di gestione delle infezioni da Clostridium difficile (IDSA – SHEA3 e ESCMID – ECDC.4) dalle quali, qui di seguito, si risportano alcuni aspetti legati alla prevenzione, diagnosi e terapia.

La diagnosi di infezioni da Clostridium difficile

Una diagnostica rapida e appropriata è cruciale per un rapido trattamento del caso e per limitare il diffondersi dell’infezione. Purtroppo un semplice esame di laboratorio non è sufficiente a porre (o ad escludere) diagnosi di infezioni da Clostridium difficile.

Il saggio di citotossicità sulle tossine è ancora considerato il “gold-standard” per la diagnosi, eppure la coltura batteriologica riesce ad evidenziare quasi un terzo di casi in più: tuttavia, entrambi gli approcci hanno perso importanza sul piano clinico.

Infatti, nonostante i metodi di coltura batterica siano molto sensibili (90-100%) e consentano di applicare i processi di tipizzazione per le analisi epidemiologiche, tuttavia richiedono un significativo carico di lavoro per il personale laboratoristico, hanno un lungo turn-around time (circa 72 ore) che li rende impraticabili nei casi di urgenza e, soprattutto, non sono in grado di evidenziare se il ceppo coltivato è produttore di tossine o meno.

Pertanto, molto spesso si utilizzano test mirati esclusivamente all’evidenziazione delle tossine di ICD: attualmente, il 79-90% degli ospedali utilizza saggi immunoenzimatici rapidi (EIA) per la diagnosi di ICD; esistono test in grado di riscontrare entrambe le tossine e altri capaci di rilevare solo la tossina A.

Si tratta di test abbastanza semplici, con una sensibilità accettabile (80-95%) e con un breve turn-around time (2 ore), il che ne favorisce l’utilizzo in urgenza. Un’importante limitazione di quest’approccio è che, coi kit che rilevano esclusivamente la tossina A, si ottengono dei falsi negativi nei casi sostenuti da ceppi produttori di tossina B soltanto (in progressiva diffusione in Asia); falsi negativi si possono avere anche nei casi in cui i ceppi batterici producono solo bassi quantitativi di tossine senza raggiungere la soglia di determinabilità del test stesso.

Nel tentativo di aumentare la sensibilità dei test, si ricorre alla biologia molecolare: la PCR eseguita sul campione fecale ha una sensibilità superiore a quella della metodica EIA [34]; il limite di determinabilità è di 1 x 105 batteri per grammo di feci (con una sensibilità del 100% e una specificità del 94% rispetto al test di citotossicità) e un buon turn-around time (meno di 4 ore).


a) Quale paziente sottoporre al test

  • Pazienti con ≥ 3 scariche di feci non formate nelle 24 ore, non altrimenti giustificate (Raccomandazione debole, qualità dell’evidenza molto bassa).

b) Quale test utilizzare

  • Utilizzare un test per la ricerca delle tossine nelle feci come parte di un algoritmo multistep, ad esempio: GDH più tossina, mediante test di amplificazione dell’acido nucleico (NAAT), NAAT più tossina (Raccomandazione debole, qualità dell’evidenza bassa).

c) Ripetizione del test

  • Non ripetere il test (entro 7 giorni) durante lo stesso episodio di diarrea e non eseguirlo su pazienti asintomatici, se non per studi epidemiologici (Raccomandazione forte, qualità dell’evidenza moderata). GIMPIOS

d) Utilizzo del test in età pediatrica

  • A causa dell’elevata prevalenza di portatori asintomatici nei neonati, il test non dovrebbe mai essere raccomandato sotto i 12 mesi d’età (Raccomandazione forte, qualità dell’evidenza moderata).

  • Il test non dovrebbe essere raccomandato nei bambini con diarrea sotto i due anni d’età a meno che siano già state escluse altre cause di diarrea infettive e non (Raccomandazione debole, qualità dell’evidenza bassa).

  • Nei bambini di età ≥2 anni il test è raccomandato in caso di diarrea persistente o in peggioramento con fattori di rischio (es. malattia infiammatoria cronica intestinale, condizioni di immunosoppressione, contatto recente con il sistema sanitario, utilizzo di antibiotici) (Raccomandazione debole, qualità dell’evidenza moderata).

PREVENZIONE E CONTROLLO

a) Sistemazione del paziente

  • Sistemare il paziente in stanza singola con servizi igienici dedicati. Se esiste un numero limitato di camere singole, dare la priorità a pazienti con incontinenza fecale (Raccomandazione forte, qualità dell’evidenza moderata).

  • Se è necessario costituire una coorte, essa deve comprendere pazienti tutti infetti o colonizzati dallo stesso microrganismo (Raccomandazione forte, qualità dell’evidenza moderata)

b) Uso di guanti e camici

  • Il personale sanitario deve usare i guanti (Raccomandazione forte, qualità dell’evidenza alta) e i camici (Raccomandazione forte, qualità dell’evidenza moderata) prima di entrare nella stanza a prendersi cura del paziente.

c) Quando attuare le misure di isolamento

  • I pazienti con sospetta ICD devono essere posti in isolamento in attesa degli esiti del test diagnostico, se questo non si può ottenere in giornata (Raccomandazione forte, qualità dell’evidenza moderata)

d) Durata dell’isolamento

  • Mantenere le precauzioni da contatto per almeno 48 ore dopo la fine della diarrea (Raccomandazione debole, qualità dell’evidenza bassa).

  • Prolungare le precauzioni da contatto fino alla dimissione se i tassi locali di ICD permangono alti nonostante l’implementazione delle misure di controllo standard per ICD (Raccomandazione debole, qualità dell’evidenza bassa).

e) Igiene delle mani

  • In situazioni di routine o endemiche effettuare l’igiene delle mani, prima e dopo il contatto con il paziente e dopo aver rimosso i guanti, con acqua e sapone o con prodotto a base di alcool(Raccomandazione forte, qualità dell’evidenza moderata).

  • In caso di focolai epidemici o situazioni endemiche ad elevati tassi eseguire l’igiene delle mani preferibilmente con acqua e sapone, per la sua elevata efficacia rispetto ai prodotti a base di alcool nel rimuovere le spore (Raccomandazione debole, qualità dell’evidenza bassa).

  • In caso di contatto diretto con le feci o area contaminata con le feci (es. regione perineale) è preferibile effettuare l’igiene delle mani con acqua e sapone (Raccomandazione di buona pratica).

f) Igiene personale

  • Incoraggiare i pazienti a lavarsi le mani e a fare la doccia per ridurre le spore sulla cute (Raccomandazione di buona pratica).

g) Utilizzo di apparecchiature e dispositivi

  • Quanto possibile, utilizzare attrezzature monouso.

  • Accertarsi che l’attrezzatura riutilizzabile sia adeguatamente pulita e disinfettata, preferibilmente con un disinfettante sporicida compatibile con l’apparecchiatura (Raccomandazione forte, qualità dell’evidenza moderata).

h) Disinfezione ambientale manuale

  • Considerare la disinfezione terminale con disinfettante sporicida in caso di tassi endemici elevati o ripetuti casi di ICD nella stessa stanza (Raccomandazione debole, qualità dell’evidenza bassa)

i) Verifica dell’igiene ambientale

  • Introdurre misurazioni dell’efficacia per garantire la qualità dell’igiene ambientale (Raccomandazione di buona pratica)

l) Disinfezione terminale automatizzata

  • Al momento sono limitati i dati disponibili per raccomandare l’uso della disinfezione automatizzata con metodo sporicida (Nessuna raccomandazione).
  • Disinfezione quotidiana
  • La pulizia giornaliera con un agente sporicida deve essere considerata con altre misure di prevenzione durante epidemie o endemie con elevati tassi o in caso di ripetuti casi di ICD nella stessa stanza(Raccomandazione debole, qualità dell’evidenza bassa)

m) Screening dei portatori asintomatici

  • Non ci sono dati sufficienti per raccomandare lo screening del portatore asintomatico e l’applicazione di misure di isolamento da contatto (Nessuna raccomandazione).

n) Stewardship antibiotica (ottimizzazione terapia antibiotica)

  • Ridurre la frequenza e la durata della terapia antibiotica e il numero di molecole antibiotiche prescritte (Raccomandazione forte, qualità dell’evidenza moderata).

  • Implementare un programma di stewardship antibiotica (Raccomandazione di buona pratica). – Gli antibiotici da prescrivere dovrebbero essere scelti sulla base dell’epidemiologia locale e dei ceppi di Clostridium difficile presenti.

  • Dovrebbe essere presa in considerazione una restrizione per fluorochinoloni, clindamicina e cefalosporine (eccetto per la profilassi antibiotica chirurgica) (Raccomandazione forte, qualità dell’evidenza moderata).

 

o) Uso di inibitori di pompa protonica (IPP)

  • Sebbene esista una associazione epidemiologica tra uso di IPP e ICD, non ci sono prove sufficienti a dimostrare che la loro sospensione è una misura per prevenire le ICD (Nessuna raccomandazione).

p) Uso di probiotici

  • Al momento non ci sono dati sufficienti per raccomandare la somministrazione di probiotici per la prevenzione primaria di ICD al di fuori di studi clinici (Nessuna raccomandazione).

Trattamento delle infezioni da Clostridium Difficile

Non è solo l’epidemiologia a variare, anche gli approcci terapeutici si stanno modificando di concerto in modo sostanziale. Storicamente, la vancomicina per via orlae è stata il primo farmaco utilizzato per il trattamento di ICD; successivamente, studi comparativi hanno dimostrato la sostanziale equivalenza fra vancomicina e metronidazolo, per cui si è scelto di usare quest’ultimo in prima linea sia per un problema di costi economici che per il rischio di selezionare enterococchi vancomicino-resistenti , limitando l’impiego di vancomicina in prima linea alle donne in gravidanza o nel periodo dell’ allattamento e ai soggetti che non tollerano il metronidazolo.

Inoltre, studi di valutazione del rapporto costo/efficacia condotti negli Stati Uniti hanno dimostrato che, valutando sia i costi dei farmaci che quelli correlati alle eventuali complicanze, il metronidazolo resta il farmaco di prima scelta (il costo della vancomicina dovrebbero essere ridotto del 90% per pareggiare il rapporto costo/beneficio). Pertanto, le linee guida americane attuali distinguono tre livelli di gravità clinica:

  • forme lievi-moderate: metronidazolo per os 500 mg ogni 8 ore;

  • forme severe (GB ≥15.000 cell/mmc o creatinina ≥1.5 il livello di normalità): vancomicina per os 125 mg ogni 6 ore;

  • forme severe complicate (necessità di ricovero in Terapia Intensiva, indicazione alla colectomia, megacolon tossico, ileo paralitico, ipotensione o perforazione colica): vancomicina per os 500 mg ogni 6 ore e/o metronidazolo per via endovenosa 500-750 mg ogni 8 ore; nel caso di ileo paralitico, si somministra metronidazolo per via parenterale associato a vancomicina somministrata per via rettale. Il trattamento per via parenterale è limitato dal fatto che i farmaci raggiungono delle basse concentrazioni endoluminali: la vancomicina per via endovenosa ha una penetrazione limitata nell’intestino, raggiungendo nelle feci una concentrazione di solo 6.4-10µg/mL ; l’escrezione del metronidazolo, invece, avviene soprattutto nella porzione più prossimale del tratto gastrointestinale e meno del 14% viene poi escreto con le feci .

Le linee guida suggeriscono che la prima recidiva dovrebbe essere trattata col medesimo farmaco impiegato la volta precedente a meno che la manifestazione clinica sia nettamente peggiorata. I tassi di recidiva variano dal 5 al 20%; è stato ipotizzato lo sviluppo di resistenza da parte del bacillo verso gli antibiotici utilizzati, ma i dati attualmente presente in letteratura sono ancora contrastanti.

Il vero problema è che test di suscettibilità di Cl. difficile agli antibiotici non vengono eseguiti di routine, poiché si dà per scontata la suscettibilità sia a vancomicina che a metronidazolo. Altre molecole in fase di sviluppo includono prodotti estremamente differenti, da nuovi antibiotici a sostanze chelanti le tossine fino ad agenti immunomodulatori.

Fra gli antibiotici ricordiamo la ramoplanina, la rifaximina e la rifampicina, il nitazoxanide, l’OPT-80, l’acido fusidico e la teicoplanina

Conclusione

L’emergenza di ceppi ipervirulenti di ICD in America e in Europa ha condotto ad un elevato numero di epidemie caratterizzate da manifestazioni severe di ICD, pertanto i programmi di valutazione e monitoraggio delle epidemie nosocomiali dovrebbero essere implementati per far fronte a tale patogeno. 

Il miglioramento nella gestione dei casi di ICD dovrebbe prevedere una maggiore uniformità dei programmi di sorveglianza attiva, soprattutto a livello europeo, che includano: la documentazione dei trend epidemiologici, il riconoscimento dei ceppi antibiotico-resistenti emergenti, la valutazione delle epidemie e la possibilità di condividere i dati per incrementare l’efficacia dei programmi stessi. Ancora una volta, la collaborazione fra Paesi risulta indispensabile per una pronta e corretta gestione delle patologie infettive.

Autore: Chiara Marnoni – Studio Infermieristico DMR

Fonti e Bibliografia:

  • SIMIT.org
  • Documento di indirizzo. Prevenzione e controllo delle infezioni da Clostridium Difficile. GImPIOS suppl. vol. 1, n. 2, aprile giugno, 2011. GIMPIOS.
  • Clifford McDonald L et al. Clinical Practice Guidelines for Clostridium difficile Infection in Adults and Children: 2017 Update by the Infectious Diseases Society of America (IDSA) and Society for Healthcare Epidemiology of America (SHEA). Clin Infect Dis 2018; Epub ahed of print.
  • Moehring RW et al. Expert Consensus on Metrics to Assess the Impact of Patient-Level Antimicrobial Stewardship Interventions in Acute-Care Settings. Clin Infect Dis. 2017; 64(3): 377–383.

 

Studio Infermieristico DMR

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