La responsabilità medica e la cura dei carcerati.

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In tema di responsabilità medica e più in generale facendo riferimento alla salute dei carcerati, è particolarmente rilevante la pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza 58363/2018),mediante la quale si è confermato l’assunto per cui la salute del detenuto deve, in alcuni casi,  prevalere sulle esigenze di carcerazione.

Alla luce delle conclusioni sopra richiamate, è stato condannato il medico che non aveva fatto ricoverare in ospedale un detenuto affetto da anoressia, e a seguito della stessa successivamente deceduto. E’ stato così respinto il ricorso del professionista sanitario sulla scorta di una valutazione dei giudici della Cassazione secondo la quale “è stato riscontrato il nesso tra l’inadempimento del medico curante e la morte del carcerato che avrebbe potuto essere salvato, come affermato dai periti. Estraneo invece ai fatti il dirigente sanitario”

Partendo dal presupposto che tra il bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, nel nostro ordinamento  sia preminente, rispetto alle esigenze di carcerazione, quello della salute del condannato. Atteso inoltre lo specifico significato da attribuire alla carcerazione che è sempre quello della rieducazione, non è possibile che tale necessità incida negativamente sulla salute del paziente.

Il medico accusato non potrà, inoltre, richiamare la colpa lieve prevista dalla legge Balduzzi (applicabile benché abrogata dalla legge n°24 del 2017, perché norma più favorevole) in quanto non si è attivato per trasferire il carcerato anoressico in una struttura esterna, malgrado l’inefficacia delle cure ed il peggioramento delle condizioni di salute. Secondo la valutazione resa dalla Corte il detenuto si sarebbe potuto salvare se vi fosse stato il trasferimento in apposita struttura fuori dal carcere, evidenziando inoltre il nesso di causalità tra inadempimento del medico e la morte del carcerato, tutto questo anche a seguito dei riscontri peritali emersi.

Il fatto

IL detenuto al momento dell’arresto nel gennaio del 2009 aveva un peso di 79 kg. Gli esami rilevavano ipopotassiemia, ipocloremia e ipercalcemia, dopo qualche mese il suo peso diminuisce fino a 63 kg. Veniva prescritta visita psichiatrica per stato ansioso, che però non era effettuata.

A seguito di vari ricoveri viene comunque negato al detenuto il diritto ai domiciliari e dopo nove mesi dal suo arresto il suo peso scende fino a 47,5 kg.

A novembre veniva fissata la camera di consiglio per la discussione dell’ennesima istanza di detenzione domiciliare per motivi di salute, corredata di relazione di aggiornamento in cui si insisteva sull’assenza di “atteggiamenti manipolativi in capo al detenuto, sul continuo calo ponderale e sull’ipopotassiemia, mai risoltasi, nonché sul conseguente elevato rischio di aritmie cardiache potenzialmente letali, come reso evidente dall’ultimo elettrocardiogramma, da cui emergeva l’allungamento dell’intervallo QT”.

A fine novembre il detenuto veniva trovato morto nel centro diagnostico terapeutico del carcere dove si trovava dagli agenti di polizia penitenziaria.

La sentenza

Secondo la Cassazione il peggioramento delle condizioni di salute, avrebbe dovuto indurre il medico a trasferire presso una struttura esterna il paziente, in una logica di prevalenza della salute del paziente rispetto alle esigenze “special-preventive” connesse al regime carcerario. Un criterio, questo, in linea sia con il principio di umanizzazione sia con la finalità rieducativa della pena.

La Cassazione afferma in tal senso che “la tutela del diritto alla salute delle persone private della libertà personale si ricavain primo luogo, in via interpretativa dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e dalla Convenzione EDU, che sostanzialmente fanno riferimento al divieto di sottoporre i detenuti a trattamenti disumani e degradanti, sulla scorta di principi giurisprudenziali ricavati dalla Corte EDU, che riconducono il diritto alla salute nell’alveo dei diritti garantiti in ambito internazionale, quale corollario del diritto alla vita e della dignità umana”.

 

“Tali principi e regole – continuano i giudicisi pongono in linea sia con il principio di umanizzazione sia con la finalità rieducativa della pena, se ed in quanto entrambi postulano il perseguimento di una piena ed efficace tutela del diritto alla salute del condannato, posto che solo una condizione di benessere psico-fisico dello stesso può garantire il suo recupero e perciò il suo reinserimento sociale. In tal senso quindi, in ossequio all’art. 27 Cost. e ai suoi corollari, il detenuto ha diritto alla tutela della sua salute sia fisica che mentale, posto che in effetti la pena può svolgere la propria funzione rieducativa verosimilmente su una persona mentalmente in grado di comprenderne la portata e il significato”.

Secondo la pronuncia della Cassazione: “in tema di colpa professionale medica, l’instaurazione del rapporto terapeutico tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo, e da cui deriva l’obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita. Inoltre, va anche rammentato che la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto della sussistenza della violazione di una regola cautelare (generica o specifica) volta a prevenire l’evento, nonché della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso”.

 

Martino Di Caudo

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