La storia di Yamo, oggi infermiere, fuggito a 7 anni dall’Afghanistan 

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«A sette anni ho lasciato il mio villaggio per andare verso l’Europa. Ho salutato mia madre, piangendo, non volevo partire. È stata tragica, come cosa, perché nessun bambino si vorrebbe mai staccare dalla propria madre». È così che Yamo, oggi infermiere in Italia, ha iniziato a raccontare del suo passato da bambino afgano in fuga.

Lo ha fatto a il Corriere della Sera, a cui ha affidato i ricordi di quella interminabile e difficile traversata: «Il viaggio consisteva nel camminare durante la notte e mangiavi solamente due cose: ceci e piselli in scatola. Io ero il più piccolo tra centinaia di afgani».


E poi… Il mare: «Il passaggio tra Turchia e Grecia è avvenuto con il gommone su cui eravamo in sei persone. Io ero il più piccolo, ero nel mezzo. E l’unica cosa che potevo fare, ovviamente, essendo un bambino di sette anni e qualche mese, era quella di stare in mezzo e pregare».

Il resto del viaggio, dalla Grecia all’Italia, in un camion: «Dentro il camion avevo delle buste di plastica dove facevo i bisogni e qualcosa da mangiare. Il camion è arrivato a Falconara, hanno aperto le porte del camion e ho trovato delle persone in divisa, che ci hanno portato in caserma».


La fine di un incubo, lontano anni luce da casa: «Io sono finito in comunità per un anno e mezzo, poi mi ha preso in affido una famiglia di Tolentino e ad oggi li chiamo mamma e papà. Perché fondamentalmente la vita mi ha dato una madre che mi ha messo al mondo e una madre che mi ha dato l’educazione e la stessa cosa vale per mio padre, per i miei due padri».

Yamo poi è cresciuto, è andato a scuola, ha studiato ed è diventato un professionista dell’aiuto: «Oggi lavoro, sono infermiere, mi sono laureato l’anno scorso e studio relazioni internazionali all’Università di Firenze». 


Sull’immigrazione, tema costantemente dibattuto in politica e non, Yamo non si rassegna al fatto che verso i migranti, troppo spesso non ci sia empatia: «Purtroppo, ad oggi, la maggior parte delle persone non riesce a capire il motivo principale per cui le persone partono. Siamo sovrastati da un’ignoranza assurda, da un’incapacità delle persone di immaginare cosa si prova a stare in un paese privo di qualsiasi forma di diritto. Vorrei che la mia storia facesse riflettere tante persone, tante famiglie e tanti ragazzi» ha concluso l’infermiere.

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a cura di Gian Domenico Giusti e Maria Benetton | Maggioli Editore 2015

Alessio Biondino