L’infermiere di parrocchia, una “scelta laica e lungimirante”?

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È stato annunciato in pompa magna, con straripante soddisfazione e con un irrefrenabile entusiasmo da parte di chi l’ha concepito, generando però tanti dubbi, ma soprattutto sensazioni e manifestazioni contrastanti all’interno della categoria infermieristica.

Parliamo dell’“Infermiere di parrocchia”, figura assai poco chiara che presto si vuole sperimentare in diverse realtà italiane, col fine di far fronte alle esigenze in costante mutazione e crescita del territorio.

L’infermiere di parrocchia, una “scelta laica e lungimirante”?

Tutto è cominciato lo scorso 29 luglio, con l’annuncio sul sito della Asl Roma 1 (VEDI):

“Nasce la figura dell’Infermiere di parrocchia. Lo prevede l’accordo, firmato, stamani, da don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Salute, e da Angelo Tanese, direttore generale dell’ASL Roma 1. L’iniziativa intende sperimentare la presenza di un infermiere di comunità inviato dall’ASL nelle Parrocchie. Dopo aver raccolto richieste e bisogni, un referente di pastorale della salute condividerà i dati con l’Infermiere di parrocchia, che si incaricherà di attivare procedure e servizi utili al soddisfacimento delle richieste”.

E ancora: “Il progetto si propone di ascoltare, informare e orientare le persone all’interno della rete dei servizi socio-sanitari territoriali delle aziende sanitarie locali; facilitare i percorsi di accesso alle cure o all’assistenza, interfacciandosi con i distretti sanitari e i vari servizi territoriali di prossimità; intercettare gli ‘irraggiunti’ e favorirne il contatto con la rete; favorire azioni di promozione della salute e del benessere della comunità”.

L’annuncio, molto vago, è stato anche accompagnato da un post su Instagram (VEDI), presto divulgato in ambiti infermieristici e che ha subito feroci attacchi da parte dei professionisti, ma anche elogi ed entusiasmo:

L’infermiere di #parrocchia. Essere più vicini ai bisogni delle #persone ❤️ questa la direzione della collaborazione pubblico/privato tra #Cei – Conferenza Episcopale Italiana e #serviziosanitarionazionale siglata oggi, perché possa diventare un modello da diffondere. Col supporto tecnico di #aslroma1 per #definire #condividere #sperimentare #diffondere con @fnopi.it #fiaso #solidarietà #cure #uguaglianza #vocazione #professionalità e #competenza“.

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Il post su Instagram della Asl Roma 1, datato 29 luglio 2019.

#Vocazione?

Sì, avete letto bene… “#vocazione”…! Ma forse è stato solo un errore di battitura in preda all’enfasi. A proposito, anche don Angelelli ha detto la sua, nel tentativo di spiegare a dovere ai giornalisti il perché di questa nuova sperimentazione:

“I modelli di sanità stanno cambiando in Italia” così come “il tessuto sociale” e per affrontare “le prossime emergenze”, “le cosiddette cronicità”, come ad esempio l’Alzheimer o una “situazione terminale magari di derivazione oncologica”, la parrocchia si offre come “luogo di incontro tra queste necessità e il Servizio sanitario nazionale”, per evitare che la malattia diventi un’altra “fonte di povertà”, un “ulteriore discrimine”, generando “una nuova cultura dello scarto”.

Ok, siamo d’accordo: i modelli assistenziali stanno cambiando, la popolazione invecchia, le cronicità sono in aumento, non esiste più la mezza stagione e la parrocchia è un luogo di incontro (come tanti altri). Ma chi è e cosa dovrebbe fare di preciso questa nuova figura tanto decantata? 

Trattasi di un infermiere di comunità, questo è ovvio, visto che la parrocchia è un luogo d’aggregazione e quindi una (ribadisco: una delle tante!) comunità. Un infermiere a cui, però, chissà per quale intuizione “divina”, si è scelto di dare il nome terribile di “infermiere di parrocchia”.

Va detto, infatti, che al di là di cosa questo professionista si ritroverà ad essere e andrà a fare, forse questa denominazione, facendo egli parte di una categoria alla disperata ricerca di credibilità e magari di un riconoscimento sociale quantomeno prossimo, andava studiata un tantino meglio: “infermiere di parrocchia”, infatti, fa venire in mente una sorta di sagrestano, di perpetua o di chierichetto col fonendoscopio appeso al collo, sempre pronto a porgere l’altra guancia, ad ascoltare la propria incontenibile “vocazione” e ad attuare la sua innata “missione”; fa venire in mente un vecchio infermiere duro a morire, in pratica, ovvero quello assai poco distaccato dalle ‘suore infermiere’ di un tempo e con un passato che la professione infermieristica non riesce proprio a scrollarsi di dosso, nonostante la sua evoluzione (almeno cartacea).

Chi è l’infermiere di parrocchia?

Tutto ciò, in assenza di spiegazioni chiare ed esaurienti circa le funzioni di questa nuova figura da parte di chi di dovere, ha generato nella categoria non poco imbarazzo, rassegnazione, goliardia, fino ad arrivare in alcuni casi alla depressione professionale più totale e a irripetibili imprecazioni social. Per non parlare dei sorrisi di scherno e delle prese per i fondelli da parte di altri professionisti (perché c’è da ammetterlo: “infermiere di parrocchia” fa davvero sorridere).

Dal 29 luglio in poi, si sono susseguite prese di posizione più o meno illustri e più o meno dure contro l’iniziativa e contro gli Ordini che la hanno avallata, ma anche difese a spada tratta della nuova figura da parte di chi l’ha pensata o sposata, con tanto di nuove precisazioni; anche queste, purtroppo, assai poco illuminanti.

L’OPI di Milano pone qualche domanda

Fino ad arrivare al dibattito di questi giorni, acceso da Pasqualino D’Aloia, presidente dell’Ordine delle professioni infermieristiche di Milano, Lodi, Monza e Brianza, con una serie di domande e riflessioni piuttosto dettagliate raccolte in una lettera inviata al direttore di Quotidiano Sanità (VEDI) e che vogliono evidenziare come in questo strano progetto vi siano molte ombre. Domande e riflessioni come:

Le aziende sanitarie locali intendono spogliarsi dei compiti istituzionali di assistenza sul territorio per delegare le proprie attività alla Chiesa cattolica?”

“Dato che sono note le posizioni bioetiche della Conferenza episcopale l’infermiere di parrocchia (dipendente del Servizio sanitario nazionale) potrà fare attività di educazione alla sessualità attraverso la promozione della contraccezione e per le attività sulla procreazione consapevole?”

Si chiede il profilo di un infermiere schierato che anteponga la propria fede all’esercizio professionale, alle leggi e al codice deontologico?”

“In un contesto complesso multiculturale, multietnico e multireligioso come quello italiano – l’8% della popolazione è straniera – l’accordo sull’infermiere di parrocchia copre volutamente una parte della popolazione (per altro oggi minoritaria come i praticanti cattolici) e esclude l’altra”.

Professione infermiere: alle soglie del XXI secolo

La maggior parte dei libri di storia infermieristica si ferma alla prima metà del ventesimo secolo, trascurando di fatto situazioni, avvenimenti ed episodi accaduti in tempi a noi più vicini; si tratta di una lacuna da colmare perché proprio nel passaggio al nuovo millennio la professione infermieristica italiana ha vissuto una fase cruciale della sua evoluzione, documentata da un’intensa produzione normativa.  Infatti, l’evoluzione storica dell’infermieristica in Italia ha subìto un’improvvisa e importante accelerazione a partire dagli anni 90: il passaggio dell’istruzione all’università, l’approvazione del profilo professionale e l’abolizione del mansionario sono soltanto alcuni dei processi e degli avvenimenti che hanno rapidamente cambiato il volto della professione. Ma come si è arrivati a tali risultati? Gli autori sono convinti che per capire la storia non basta interpretare leggi e ordinamenti e per questa ragione hanno voluto esplorare le esperienze di coloro che hanno avuto un ruolo significativo per lo sviluppo della professione infermieristica nel periodo esaminato: rappresentanti di organismi istituzionali e di associazioni, formatori, studiosi di storia della professione, infermieri manager. Il filo conduttore del libro è lo sviluppo del processo di professionalizzazione dell’infermiere. Alcune domande importanti sono gli stessi autori a sollevarle nelle conclusioni. Tra queste, spicca il problema dell’autonomia professionale: essa è sancita sul terreno giuridico dalle norme emanate nel periodo considerato, ma in che misura e in quali forme si realizza nei luoghi di lavoro, nella pratica dei professionisti? E, inoltre, come si riflettono i cambiamenti, di cui gli infermieri sono stati protagonisti, sul sistema sanitario del Paese? Il libro testimonia che la professione è cambiata ed è cresciuta, ma che c’è ancora molto lavoro da fare. Coltivare questa crescita è una responsabilità delle nuove generazioni. Le voci del libro: Odilia D’Avella, Emma Carli, Annalisa Silvestro, Gennaro Roc- co, Stefania Gastaldi, Maria Grazia De Marinis, Paola Binetti, Rosaria Alvaro, Luisa Saiani, Paolo Chiari, Edoardo Manzoni, Paolo Carlo Motta, Duilio Fiorenzo Manara, Barbara Man- giacavalli, Cleopatra Ferri, Daniele Rodriguez, Giannantonio Barbieri, Patrizia Taddia, Teresa Petrangolini, Maria Santina Bonardi, Elio Drigo, Maria Gabriella De Togni, Carla Collicelli, Mario Schiavon, Roberta Mazzoni, Grazia Monti, Maristella Mencucci, Maria Piro, Antonella Santullo. Gli Autori Caterina Galletti, infermiere e pedagogista, corso di laurea magistrale in Scienze infermieristiche e ostetriche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma.Loredana Gamberoni, infermiere, coordinatore del corso di laurea specialistica/ magistrale dal 2004 al 2012 presso l’Università di Ferrara, sociologo dirigente della formazione aziendale dell’Aou di Ferrara fino al 2010. Attualmente professore a contratto di Sociologia delle reti di comunità all’Università di Ferrara.Giuseppe Marmo, infermiere, coordinatore didattico del corso di laurea specialistica/ magistrale in Scienze infermieristiche e ostetriche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede formativa Ospedale Cottolengo di Torino fino al 2016.Emma Martellotti, giornalista, capo Ufficio stampa e comunicazione della Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi dal 1992 al 2014.

Caterina Galletti, Loredana Gamberoni, Giuseppe Marmo, Emma Martellotti | 2017 Maggioli Editore

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Le dichiarazioni del Direttore Generale ASL Roma 1

Fortunatamente, con un’altra lettera a Quotidiano Sanità (VEDI), ha risposto proprio Angelo Tanese, Direttore Generale ASL Roma 1, una delle realtà che ha sposato il progetto; e lo ha fatto, evidentemente, con l’intenzione di fugare ogni dubbio una volta per tutte. Ecco parte di alcune delle sue risposte:

“la ASL Roma 1 ha raccolto con entusiasmo la proposta dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Salute della CEI di fornire una collaborazione tecnica al fine di valutare la fattibilità di modelli di collaborazione più innovativi tra le parrocchie e il Servizio Sanitario.”

“Non si tratta in alcun modo di cedere o appaltare ad altri una parte dell’assistenza infermieristica. È esattamente il contrario, nel senso che il servizio sanitario pubblico entra in contatto con delle comunità locali significative e spesso molto attive, quali sono le parrocchie, per migliorare l’accesso alla rete dei servizi.

“Personalmente ritengo che sia stata una scelta e una proposta lungimirante e particolarmente “laica” da parte dello stesso Ufficio Pastorale per la Salute della CEI, che avrebbe potuto ipotizzare altre soluzioni, alternative e parallele al servizio sanitario pubblico.”

“Interagire con le comunità parrocchiali non significa in alcun modo privilegiare i cittadini in funzione del loro credo religioso, escludere comunità acattoliche o rinunciare alla laicità del servizio pubblico.”

“L’infermiere del servizio sanitario pubblico indirizza ai servizi dell’azienda, incluse le attività consultoriali per la promozione della contraccezione, il servizio di assistenza domiciliare, il Sert o il centro di salute mentale, per fare degli esempi, senza discriminazione o condizionamento. Non assiste le persone in quanto parrocchiani, e quindi cattolici, ma in quanto cittadini.”

“In conclusione, questa collaborazione non riduce ma apre una grande opportunità per rafforzare l’efficacia e la fiducia nel SSN come servizio di prossimità, vicino ai luoghi di vita delle persone, trovando nuove strade ancora da esplorare”.

Se l’intento era quello di fugare ogni dubbio e di fare finalmente luce sulle tante ombre di questa nuova figura… Tanese ci sarà riuscito? Forse in parte. Che l’infermiere “di parrocchia” sia una “scelta laica”, infatti, è un po’ un controsenso, almeno nella sua discutibile denominazione.

Anche sul fatto che non si privilegino i cittadini cattolici, se ne può discutere: di fatto, la maggior parte delle persone che vanno in parrocchia, che ivi si rivolgono e che sanno come funziona, non sono di certo musulmani, buddisti o seguaci di Satana. 

Personalmente, faccio seria fatica anche a immaginare un infermiere di parrocchia che promuove la contraccezione e la procreazione consapevole, visto il contesto in cui si ritroverà a lavorare, ma… Questo è solo un giudizio personale.

Speriamo che qualcuno, molto presto, ci illumini una volta per tutte circa questa controversa figura. E intanto non ci resta che attendere con ansia che il primo infermiere di parrocchia faccia la sua comparsa tra mura consacrate e che inizi ad operare sul territorio, così da capire meglio le sue responsabilità/attività e di appurare l’eventuale presenza di una irrefrenabile “vocazione” fuori dal tempo.

A voi ulteriori commenti o riflessioni.

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Fonte: Asl Roma 1

Alessio Biondino

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