La Corte di Appello dell’Aquila in riforma della sentenza del tribunale di prime cure di Sulmona, ha accolto il ricorso di alcuni infermieri generici, che di fatto svolgono mansioni da infermiere professionale, alternandosi con questi in ragione della cronica carenza di personale, volto al riconoscimento del diritto alla corresponsione della retribuzione relativa allo svolgimento di mansioni superiori.
La Corte territoriale, avendo raggiunto la prova dello svolgimento delle mansioni superiori mediante l’escussione dei testi, ha rilevato che la ASL aveva specificatamente contestato non il fatto in sé, quanto la circostanza che lo svolgimento delle mansioni superiori si fosse realizzato in assenza di atto formale di conferimento delle stesse da parte dell’Amministrazione.
Tuttavia, secondo la Corte, tale carenza formale non poteva ritenersi ostativa nei confronti degli appellanti, in base all’art. 2126 c.c. e in base alla consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, la quale considera pienamente applicabile il diritto alla corresponsione della maggiore retribuzione per lo svolgimento delle mansioni superiori nel pubblico impiego contrattualizzato.
La ASL Avezzano si oppone a tale decisione con due censure, tempestivamente contestate con un controricorso dagli infermieri.
La Asl ritiene che la Corte territoriale abbia falsamente applicato l’art. 52, co. 5 del D.lgs. 165/2001, laddove sancisce, al di fuori dei casi contemplati dal comma 2 della stessa norma (vacanza del posto organico e sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto), che il diritto alla retribuzione per l’esercizio di fatto di mansioni superiori spetta al pubblico dipendente soltanto in presenza di una causa di nullità nell’assegnazione delle stesse.
In materia sanitaria, l’adibizione a mansioni superiori per il personale del comparto, può essere disposta soltanto in presenza di obiettive ragioni di servizio, in via eccezionale e per non più di sessanta giorni, previo provvedimento formale di incarico e comunque con esclusione del diritto alle retribuzioni superiori (ex art. 29, co. 2 D.P.R n. 761/79).
Non essendovi stato quindi nessun incarico formale, mancherebbe il presupposto stesso del diritto alla retribuzione superiore e rimarrebbe quindi esclusa la portata dell’art. 2126 c.c..
Inoltre la ASL lamenta omessa o insufficiente motivazione circa diversi punti e fatti decisivi ai fini della controversia, la Corte avrebbe omesso di considerare gli effetti della carenza di un atto formale di incarico che darebbe diritto ad una retribuzione superiore.
Altra doglianza della ASL verte sul fatto che la Corte territoriale non avrebbe considerato la decisiva carenza, in capo ai dipendenti, degli specifici requisiti abilitanti l’esercizio della disciplina infermieristica e dell’iscrizione all’albo pubblicistico della professione.
La Cassazione nella valutazione delle doglianze dichiara che, omettendo di valutare le conseguenze del mancato possesso del titolo abilitante in capo agli infermieri svolgenti mansioni superiori, la Corte territoriale ha effettivamente mancato di motivare se, alla luce della particolare rilevanza pubblicistica delle professioni sanitarie dovuta alla alta valenza Costituzionale degli interessi coinvolti, il thema decidendum avrebbe potuto essere soddisfatto con un approdo interpretativo meno rigoroso tra quelli possibili, consistente nel riconoscimento incondizionato delle pretese retributive, a prescindere dalla qualifica degli appellanti.
Deve inoltre rivelarsi che per le professioni sanitarie, la carenza del titolo abilitante specifico e della relativa iscrizione all’albo, produce la totale illiceità dello svolgimento di fatto di mansioni superiori, rendendo inesigibile il diritto alla corrispondente maggiore retribuzione ai sensi dell’art. 2126 c.c..
La differenza di valutazione del legislatore si apprezza nel confronto con altre professioni a rilevanza pubblicistica, quale quella giornalistica (impropriamente menzionata dai controricorrenti), per le quali la mancanza di licenza o abilitazione non va ad incidere sull’oggetto o sulla causa del contratto, ma si limita a caratterizzare una forma di illegalità derivante dalla carenza di un requisito estrinseco.
La Corte ha già avuto modo di evidenziare lo stretto legame esistente tra la richiesta del titolo abilitante da parte della legge e l’incidenza dell’attività sanitaria sulla salute e sicurezza pubblica e sulla tutela dei diritti fondamentali della persona. Principio per altro consolidato nella giurisprudenza amministrativa sotto previgente regime pubblicistico, afferma che “…qualora il contenuto e le mansioni di una qualifica discendano dalla legge professionale, in ordine al possesso di un determinato titolo di studio per l’esercizio di una professione, non può considerarsi utile ai fini del conseguimento di una qualifica superiore l’espletamento di mansioni che la legge professionale stessa riservi esclusivamente a chi è in possesso di quello specifico titolo di studio, l’attività eventualmente svolta si pone come illecita perché in violazione di norme imperative attinenti all’ordine pubblico e poste a tutela della generalità dei cittadini non già del prestatore di lavoro (Cass. n. 15450/14).
Nel caso in esame infatti, il diritto alla maggiore retribuzione non può dirsi spettante, perché l’attività del personale infermieristico risulta regolata da specifiche norme attinenti a profili di ordine pubblico.
Nella fattispecie la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto che, agli appellanti chiamati a svolgere l’attività di infermiere professionale senza possedere il titolo abilitante (diploma universitario, laurea triennale, iscrizione all’albo professionale), spettasse la maggiore retribuzione, in quanto non ricorrono le condizioni per l’applicabilità dell’art. 2126 c.c. per l’accertata illiceità dell’oggetto e della causa dell’obbligazione (ribadendo l’orientamento di Cassazione in ipotesi di adibizione di fatto alle mansioni di infermiere specializzato).
La Corte quindi accoglie il ricorso proposto dalla ASL e decide la causa nel merito, avendo la Corte di Appello erroneamente deciso, rigetta quindi l’originaria domanda e compensa le spese tra le parti.
Sentenza assolutamente in linea con gli arresti giurisprudenziali degli ultimi anni.
Preme sottolineare che la Corte di Appello ha completamente ignorato quelle che sono le comuni regole giuridiche per concedere le mansioni superiori, ossia che debba sussistere un posto vacante in organico in attesa di copertura attraverso concorso, ma soprattutto che la funzione, perché si qualifichi la retribuzione superiore, debba essere svolta dietro incarico formale conferito dall’azienda che giustifichi la corrispondente retribuzione superiore, in mancanza del quale, non può in nessun modo essere corrisposta.
Lascia fortemente perplessi che la Corte di Appello non abbia considerato e abbia omesso completamente di verificare se gli appellanti (infermieri generici), possedessero o meno la qualifica giuridica per poter poi richiedere le mansioni superiori; infatti, non solo non avevano ricevuto un incarico formale, ma addirittura non avevano neanche il titolo abilitante alla professione infermieristica.
Errore grossolano a cui la Suprema Corte ha dovuto porre immediato rimedio.
Se la ASL non avesse portato il giudizio in Cassazione, oggi, avremmo infermieri generici equiparati ai professionali laureati triennali, un assurdo controsenso.
Dott. Carlo Pisaniello
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