Omissione di atti d’ufficio in psichiatria: stigma, negligenza o menefreghismo?

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Potrebbe accadere che una valutazione professionale sia contraria al bisogno reale del momento. Ma cosa succede se il posto della valutazione viene preso da uno atto di noncuranza?

Il pregiudizio siamo noi

La giornata mondiale della Salute Mentale (Mental Health Day) è passata da poco. Ogni anno il 10 ottobre si celebra questa ricorrenza voluta dalla Federazione mondiale per la salute mentale (WFMH) e dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) già dal 1992.

E’ significativo pensare come l’obiettivo della sensibilizzazione riguardo ad un tema molto sentito, parta sempre dall’interno e spingendosi incessantemente a dismisura venga elargito con nobili intenti in ognuno, ma al di fuori del proprio ambito di manovra lavorativa.

Sensibilità estrema è richiesta a tutti, ed un monito è molto spesso lanciato lontano da noi, che già incontriamo faccia a faccia ogni giorno la malattia, come se un’abitudine ormai radicata, sentita e toccata da vicino, sembra renderci immuni da sentimenti malpensanti, pregiudizievoli, stigmatizzanti a cornice della patologia.

Lo stigma è sempre negli altri, sono gli altri che in modo negativo marchiano e lanciano anatemi sulla pazzia e su quel mondo precluso che potrebbe infettare le acute menti. Nessuno mai forse, guarda ad una “epidemia” interna del problema che già ci dovrebbe spingere a sbirciare dal lato opposto del binocolo, a lateralizzare l’approccio del sentimento.

Un comportamento stigmatizzante travestito da non curanza e negligenza rischia di farci prendere la mano e rinchiuderci in una professionalità ignobile. Perciò occorrerebbe, di tanto in tanto, prendere degli esempi, infilare i panni di qualcun altro ed infine, non giudicando, valutare da noi una posizione in un momento già accaduto ad altri e pensare a quale comportamento avremmo avuto.

Si lamenta sempre, disturba, è una piantagrane ergo è pazza.

Il caso

Riprendiamo una storia che con i suoi fatti aiuta a comprendere un modus operandi che non è estraneo, purtroppo, ai nostri ambienti, ma che assume un significato del tutto differente quando si parla di salute mentale, di psichiatria, di un mondo che per alcuni potrebbe apparire etereo, lontano, che all’occorrenza plasmiamo a nostro comodo.

Il confine è molto spesso sottile, da un lato si addita un comportamento recludendolo quasi sotto una fattispecie di aspetto lombrosiano, e dall’altro lo si utilizza a dovere fino a consumarlo quando serva a giustificare una commissione inappropriata, come ben ricavato all’occorrenza da difensori e CTP (Consulenti Tecnici di Parte).

I Grado.

Nel 2010 due infermieri di un reparto psichiatrico furono condannati dal Tribunale di Palmi a 4 mesi di reclusione per indebito rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 co. 1 c.p.), in quanto non avvisarono il medico di guardia della situazione incresciosa accaduta durante il turno alla paziente, chiamata che avrebbe consentito al sanitario di poter valutare le patologie sofferte della stessa ed adottare gli opportuni provvedimenti del caso.

La ricoverata avendo segnalato agli infermieri improvviso violento mal di testa, accompagnato da vomito e perdita di equilibrio, con caduta, che causò poi una contusione all’arcata sopracciliare, non ebbe riscontro alle richieste di aiuto, comportamenti che dovevano essere compiuti senza ritardo, pronunciò la Corte.

Appello (2012).

Anche la sentenza d’Appello non fu clemente con i due imputati, confermando la condanna del I grado. Nel ribadire il giudizio di responsabilità la Corte affermò che gli infermieri si rifiutarono indebitamente di chiamare il medico reperibile ed volontariamente lasciarono cadere nel vuoto le richieste loro rivolte dalla persona offesa, proprio in quanto la consideravano (visti gli screzi avvenuti nei giorni precedenti), un soggetto, fastidioso piantagrane il cui unico intento era quello di provocarli (come dichiarò uno dei due).

Interessante considerare la linea di condotta della difesa, in cui riprendendo spunto dai fatti ed architettando a dovere uno scudo ed una linea di demarcazione, tentò di rappresentare bene l’idea di inattendibilità a causa dello “stato di pazzia” della donna.

Il suo non può considerarsi un bisogno reale! Infatti se così non fosse stato, dopo le negazioni degli infermieri, avrebbe di sicuro, seguendo una certa logica, chiamato i suoi familiari o le forze dell’ordine, visto che era in possesso del telefono cellulare.

Per questo già perde di credibilità, tenuto anche conto che a causa della patologia mentale che la tormentava, la stessa sarebbe stata preda di una crisi isterica, che di norma si può manifestare col comportamento avuto insieme al vomito.

E comunque, caposaldo difensivo fu il concetto che, non essendosi verificato alcun danno per conseguenza diretta dell’omissione degli infermieri, la condotta non doveva essere punita. La Corte incalzò, ribadendo la qualità di incaricato di pubblico servizio degli infermieri, investiti anch’essi di una funzione di garanzia (svolgono un compito cautelare essenziale nella salvaguardia del paziente” -Cass. pen. n. 24573/2011-); inoltre, proprio a coronazione di suddetta funzione (essenziale cautela e controllo nel decorso clinico della malattia), un’ulteriore integrazione del reato contestato si è avuto in quanto, la situazione di dubbio in atto necessitava per forza di cose l’intervento del medico.

Corte di Cassazione, VI sez. pen. n°49537/2014.

La Suprema Corte dichiarò i ricorsi dei due infermieri in parte inammissibili e in parte manifestamente infondati. I punti salienti pronunciati furono:

  • non occorre che l’atto omesso o ritardato produca danno al paziente; di già l’atteggiamento di omissione di atti d’ufficio rappresenta un reato di pericolo la cui previsione sanziona il rifiuto, non già di un atto urgente, bensì di un “atto dovuto che deve essere compiuto senza ritardo”, tempestivamente, indipendentemente dal nocumento che in concreto possa derivarne (cfr. Cass. pen. Sez. VI, 13519/2009, Rv. 243684, Gardali).
  • rifiutare, omettere o ritardare un atto d’ufficio, per essere considerato sanzionabile penalmente, non deve per forza cagionare un danno alla Pubblica Amministrazione o ledere interessi dei privati.

Così facendo la Cassazione sottolinea l’essenziale concetto del “delitto di omissione”: per essere penalmente sanzionabile, l’omissione, il ritardo o il rifiuto di un atto d’ufficio non deve per forza cagionare un danno. Essa ribadisce che la condotta di rifiuto si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine, ma anche quando, come nella specie, a prescindere dalla pressante invocazione di assistenza e cura della persona ricoverata, sussista un’urgenza sostanziale impositiva del compimento dell’atto (cfr. Cass. pen. n. 29361/2014).

Riferendosi in particolare alla figura dell’infermiere sentenziò che rientra nel “proprium” dell’infermiere professionale quello di controllare il decorso della malattia o convalescenza del paziente ricoverato, fungendo da “necessario tramite con il medico del reparto“, l’unico al quale richiedere un intervento di mediazione e capace ad interpretare lo sviluppo patologico accaduto alla paziente. Dichiara perciò inammissibili i ricorsi e condanna i due infermieri al pagamento delle spese processuali.

Il pensiero strisciante

Molto spesso si fa strada, strisciante, una superficialità stanziale nell’operato sanitario che deve essere soppressa. Una onnipotente saccenza a volte sembra impadronirsi delle nostre menti buttandoci fuori strada.

Il sentimento di protezione della salute (posizione di garanzia, compito cautelare), deve essere sentito appartenerci ancor prima di pronunciamenti ed investiture giurisprudenziali. Quando arriveremo a capire ciò, gran parte del lavoro sarà stato fatto. In questo caso abbiamo notato un comportamento che all’apparenza potrebbe non destare preoccupazione nelle coscienze di alcuni, non avendo palesato alcun danno.

Purtroppo il punto di arrivo ribadito dai tre gradi di giudizio non ha lasciato scampo. Spero non sia e non si avvici nemmeno minimamente alla routine di comportamento, in quanto l’utilizzo di qualsivoglia forma di giustificazione, di pregiudizio o contorno giustificatorio ci spinge al richiamo di retaggio simil-stigmatico.

E’ emersa una capacità assistenziale superficiale che, come visto, è stata presa e giustificata in punto di difesa: la paziente non era credibile a causa del suo stato di pazzia, una diagnosi infermieristica non richiesta ed inopportuna si è insinuata quasi a danno, e un mancato coinvolgimento del medico sembrava essere sentito come forzatamente opportuno, data l’inattendibilità della persona malata.

Quanti i comportamenti simili nei Reparti e nei Servizi che si occupano di salute mentale? Può essere definito un comportamento strisciante se già legittimato ed “incarnato” in un aspetto professionale controverso? Alla persona malata a causa del proprio stato e condizione non viene dato credito, in virtù di un nostro personale parametro.

A coloro i quali negano qualsivoglia comportamento inappropriato affibbiatogli e sono determinati a staccarsi di dosso appellativi da vocabolario che vanno a braccetto con la parola stigma, vorrei ricordare che forse non sbaglio se penso non essere solo una questione letteraria del termine che trasforma tutta l’erba in un fascio: lo stigma è presente, si è evoluto col mutare di un pensiero moderno del comportamento umano, spesso si diluisce in atteggiamenti offuscati di falsa accondiscendenza e buonismo non richiesto con la scusante di velocizzare una trasformazione che dobbiamo prima di tutto sentire dentro in ciò che siamo e facciamo come professionisti.

Autore: Giovanni Trianni – Infermiere legale forense

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